Nei giorni scorsi con molta enfasi è stato licenziato, solo in prima lettura, il nuovo Codice dei contratti: alcuni elementi sono stati anticipati dal comunicato stampa del Cdm, molto si può dedurre dalla schema definitivo pubblicato dal Consiglio di Stato il 7 dicembre scorso, ma ancora non c’è nulla di definitamente codificato. E infatti, trattandosi di materia di grande interesse e con forti risvolti economici, nel percorso fino alla definitiva pubblicazione s’inseriscono spesso modifiche a volte anche con risvolti importanti.



Ciò premesso, prima ancora di addentrarsi in commenti ed osservazioni, pare opportuno inquadrare alcuni elementi fra i tanti possibili, per permettere poi di meglio comprendere le dinamiche che sottendono il provvedimento.

Innanzitutto per Codice dei contratti si intende il corpo normativo che vorrebbe racchiudere in maniera onnicomprensiva tutta la legislazione inerente la materia dei contratti pubblici; per capirne la portata basti pensare che l’attuale ipotesi è di 229 articoli esclusi gli allegati eventuali.



Lo sviluppo storico risale al 1994 con la legge quadro in materia di lavori pubblici (detta legge Merloni), successivamente sostituita dal Dlgs 163 del 2006, dove per la prima volta appare la dizione “codice dei contratti pubblici”, a sua volta sostituito dal Dlsg 50 del 2016, per arrivare infine all’attuale nuova edizione in fase di pubblicazione. Come si può osservare, dopo un primo ventennio (1994-2016) di stabilizzazione, tra il 2006 ed oggi, quindi sedici anni, la norma è cambiata ben tre volte. Nel frattempo tra un codice degli appalti e l’altro avrebbero dovuto essere pubblicati tempestivamente i regolamenti attuativi (potremmo dire il “manuale operativo”) che però o si sono fatti attendere anche anni, o, come nell’ultimo codice del 2016, non sono mai stati pubblicati.



Appare quindi evidente che siamo in presenza di una situazione normativa assai “magmatica”, che poco sembra adattarsi a criteri di efficienza, se non in molti casi di vera e propria certezza del diritto.

Si parla anche di appalti sotto o sopra soglia europea, ma deve essere chiarito che la demarcazione dal punto di vista giuridico non è poi così netta. Le soglie di rilevanza comunitaria sono: 5.382.000 di euro per appalti di lavori; 431.000 euro per appalti di forniture, di servizi e per concorsi pubblici di progettazione; 1.000.000 di euro per i contratti di servizi, per i servizi sociali ed altri servizi specifici. Ma anche sotto queste soglie (e quindi per molti dei lavori con cui quotidianamente impattiamo) la legislazione comunitaria, per impostazione sempre più (spesso eccessivamente) liberista rispetto a quella nazionale, presenta influenze rilevanti, specie nei capitoli come i criteri di aggiudicazione, scelta dei contraenti e subappalti. In più di un caso il legislatore italiano è stato costretto ad emendare la legge nazionale a seguito di sentenze della Corte europea.

Quanto ai subappalti, sono stati via via sempre più liberalizzati, rispetto ai vincoli iniziali posti dal legislatore nazionale sia in difesa della trasparenza delle procedure (per sua natura il subappalto presenta tratti di opacità e di minore controllo) quanto di tutela dei lavoratori. Quando si parla di subappalto s’intende il fatto che l’operatore principale aggiudicatario dei lavori affidi una parte degli stessi (solo teoricamente è vietato il completo affidamento dei lavori ad altri) ad altri soggetti economici. Come sopra accennato, su pressione europea di fatto i vincoli a tale prassi si sono via via allentati fino a quanto ora indicato, in cui sembra prevedersi che questa catena di “riaffidamenti” del medesimo lavoro possa svilupparsi su più livelli e che quindi al primo operatore aggiudicatario possa subentrarne un secondo (almeno per parte di lavori), ma che anche questo a sua volta possa riaffidare ad altri la realizzazione dell’opera, in un percorso certamente molto critico.

Altro soggetto citato nella riforma del codice è l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac); a dispetto del norme questa autorità (erede delle funzioni della disciolta Autorità di vigilanza dei contratti pubblici, Avcp) non si occupa solo di corruzione, ma svolge una funzione di controllo molto più ampio sull’intero iter dell’appalto pubblico, dalla legittimità degli atti alla conformità dei bandi alla norma, alla vigilanza sul corretto svolgimento dei lavori, al controllo e qualificazione delle imprese. Dotata di autonomia finanziaria e quindi di ingenti risorse (esiste un prelievo obbligatorio a favore di Anac per ogni partecipante alle gare e per le stazioni appaltanti), l’Autorità ha svolto negli anni vere e proprie funzioni di indirizzo sia interpretativo che operativo, nonché di giudizio, seppure normalmente non vincolante, nelle controversie fra operatori e stazioni appaltanti (i cosiddetti procedimenti di precontenzioso), spesso un modo di dirimere in maniera efficace ed economica le problematiche che possano insorgere in sede di gara. In funzione della normativa applicata, dell’autorevolezza ed intraprendenza dei diversi presidenti succedutesi (nei tempi recenti famosa la gestione del presidente Raffaele Cantone), ha più di una volta determinato in maniera molto influente interpretazione ed applicazione della legge.

Da qui l’interesse del legislatore ad ampliare (come nel codice del 2016) o ridurre (come nel caso della presente riforma) i poteri e l’influenza di Anac, che obiettivamente è più di una volta “sfuggita” ai limiti che le si sarebbe voluto imporre.

Ultima fra le tante annotazioni possibili è la “riattivazione” del cosiddetto appalto integrato, che in questi anni è stato più volte permesso, poi abrogato, poi parzialmente permesso. Mentre normalmente la stazione appaltante redige un progetto esecutivo sulla cui base indice la gara ed al cui rispetto è tenuto l’aggiudicatario, in questa formulazione viene posto a base di gara un progetto con minore livello di dettaglio (il cosiddetto progetto definitivo se non addirittura il preliminare) per poi lasciare all’esecutore, o ad un professionista da questi incaricato, la redazione del progetto esecutivo e, ovviamente, l’esecuzione dei lavori. Essendo che in questo modo viene evidentemente ridotto il controllo su qualità dell’opera da parte della stazione appaltante a favore della celerità delle procedure, in funzione delle diverse esigenze sono prevalsi nell’impianto legislativo diversi orientamenti sul tema, ma raramente è stata data evidenza dell’elemento di rischio rappresentato da queste prassi che più facilmente può indurre a realizzazioni di minore qualità.

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