Il risultato elettorale italiano non ha mosso in modo evidente i mercati o la finanza italiana; il listino milanese ha fatto un po’ meglio di quelli europei; lo spread è salito, ma il movimento, per quanto significativo, non è una novità assoluta rispetto a quanto visto negli ultimi mesi. Bisogna poi avere presente quale sia il contesto finanziario internazionale. L’allarme rosso suona da diverse settimane e negli ultimi giorni si segnala il crollo verticale della sterlina inglese arrivata ai minimi contro il dollaro da diversi decenni.
La liquidità globale si ritira e torna verso il centro dell’impero, il dollaro, lasciando per strada il mercato obbligazionario globale, i debiti sovrani percepiti come più fragili e le valute deboli. Anche l’euro è ai minimi contro il dollaro dall’inizio degli anni duemila e per ora fa meglio di altri anche per un mero fatto dimensionale, essendo una preda molto più indigesta per la speculazione.
Gli evidenti segnali di stress finanziario, si pensi alle valute, non sono ancora arrivati al grande pubblico. In parte perché la crisi negli Stati Uniti è molto indietro rispetto a quella di altre economie sviluppate; anzi, l’unico problema in America è rallentare l’aumento dei prezzi che è anche il frutto di un mercato del lavoro esuberante e delle immissioni di liquidità arrivate dopo i lockdown. La crisi energetica rimane una frazione di quella europea e il sistema beneficia del rientro di molte imprese. Per molti altri Paesi la situazione non è problematica come in Europa. È una questione, principalmente, di crisi energetica. Ne abbiamo un esempio in Unione Europea, perché Spagna e Portogallo sono riuscite a svincolare il prezzo dell’energia elettrica da quello del gas e oggi hanno costi dell’elettricità che sono la metà della metà di quelli italiani.
In questo quadro si inserisce la vicenda dell’Italia e più in generale dell’euro. C’è una narrazione dell’Italia in crescita, dei bonus e dei successi nella riduzione del debito che è sopravvissuta perfino nelle ultime settimane di fronte alla morte per mancanza di energia di una grande parte del sistema produttivo italiano. Poi c’è quello che nota la finanza e da questo punto di vista l’allarme ha già iniziato suonare. Prendiamo i Cds (credit default swap) sul debito italiano e in particolare la differenza tra la serie pre-2014 e quella post-2014 che incorpora il rischio di ridenominazione del debito in un’altra valuta. Questo “spread” viaggia da luglio a livelli che non si vedevano dal 2018, quando governavano i “giallo-verdi” e ha fatto le prime puntate verso l’altro già a giugno ben prima delle dimissioni di Draghi. Il “tecnicismo” segnala che per gli investitori il rischio che l’Italia esca dall’euro è tornato al 2018. Il grafico intanto continua a salire.
La realtà dunque è che sta montando un’altra crisi dell’euro che tocca l’eurosistema nel suo punto più fragile e cioè l’Italia. L’Italia non è mai entrata in una crisi finanziaria con il sistema produttivo in queste condizioni e in larga parte fermo. Le imprese italiane sono state il “motore immobile” che ha permesso al Paese di reggere a tutti gli urti, spesso approfittando dell’indebolimento dell’euro per aumentare le esportazioni. Tutto questo oggi non c’è più. Basterebbe che la narrazione sul miracolo economico delle riaperture cedesse il passo al racconto della quotidianità di migliaia di imprese e attività artigianali per rendersene conto.
Le altre crisi dell’euro si sono risolte sull’asse Roma-Francoforte quando il sistema, incassati i dividendi politici e di sovranità, decideva di salvare l’unione monetaria. Anche questo è cambiato. La Germania non si deve più solo chiedere se le convenga salvare l’euro, ma anche se possa farcela, sia perché il costo di salvare l’Italia oggi è enormemente più alto, complici i lockdown prima e le sanzioni poi, sia perché la Germania è in difficoltà economica come mai dalla Seconda guerra mondiale.
Leggiamo i Cds, osserviamo la crisi finanziaria globale che monta e le ripercussioni che inevitabilmente avrà sull’Italia e sull’area euro e proviamo un senso di straniamento. È una sensazione che deriva dalla contraddizione tra quello che si osserva sui mercati e tra le imprese e quello che si legge sui giornali impegnati a descrivere il “miracolo” economico italiano e l’imminente fallimento dei nemici interni ed esterni.
La novità, da ieri, è che si preannuncia la creazione di quello che è già stato descritto come il Governo più di destra della storia italiana con pessimi rapporti con il centro europeo. Più che la causa dei problemi che emergeranno, che in realtà già ci sono se pur non raccontati, l’impressione è di trovarsi di fronte al capro espiatorio perfetto. Tanto più che di quello che serve, la soluzione della crisi energetica in un modo o nell’altro, già si sa che non verrà fatto, tra mantenimento delle sanzioni e rifiuto di “fare deficit” per salvare le imprese.
La speculazione finanziaria è già montata e il deficit, al limite, farebbe la differenza tra un’Italia senza o con imprese. Che rimanga senza è il sogno di ogni speculazione finanziaria. L’Europa? Sempre ammesso che voglia, con crisi energetiche diversissime dentro l’euro, oggi non può fare nulla. Tra l’inizio della crisi finanziaria e il suo scoppio manca solo la miccia. L’Italia in questo senso non è in una posizione invidiabile.
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