Caro direttore,
il governo Draghi è arrivato e per dare un giudizio politico non si può altro che partire dallo stato d’animo: un sospiro di sollievo.
Sembra poco, ma è una sensazione emotiva che raccoglie molto. Certo, ai politologi, agli esperti, ai tecnici il compito di decodificare. È che d’un colpo sono successi avvenimenti che hanno rotto la coltre di fumo che ricopriva il paese, una cortina, d’altronde, sempre pronta a riformarsi.
E questa è la prima novità. Sembra impossibile che adesso si possa guardare alla realtà così com’è, senza costruire intorno fiumi di retorica, di annunci, di tempi al futuro e al condizionale. Il governo Draghi è il risultato dell’incarico assegnato a una figura che raccoglie la fiducia della maggioranza della scalcagnata classe dirigente perché giudicato adatto a trattare la situazione italiana; un uomo che riunisce in sé le competenze tecniche, politiche, nonché fornito delle relazioni necessarie a gestire la molteplice crisi italiana con l’occasione, tutta a debito, dei fondi europei. Una nomina che segna la fine dell’incompetenza al potere, giusta nemesi dello slogan sessantottino “l’immaginazione al potere”.
Ma il governo del presidente, perché questo è il governo Draghi, non è un governo tecnico. È la forzatura estrema da parte del sovrano formale e materiale per pacificare la perenne guerra civile italiana mai sopita, che, se non interrotta, rischia in tempi di crisi mondiale in un mondo globalizzato, integrato e super veloce, di spezzare definitivamente la capacità di gestione difficilissima dell’equilibrio tra stabilità, innovazione, apertura del sistema e coesione sociale.
Che questo atto di unità sia stato dirompente, lo hanno dimostrato le reazioni scomposte dei giustizialisti a 5 Stelle e degli ex comunisti del Pd. Adesso per loro sarà più difficile – non impossibile –, perché più scoperto, il gioco di sponda con qualche magistrato amico e delegittimare, infangandoli, gli avversari.
Inoltre vi è il dato più politico. Il governo del presidente ha prodotto un’altro risultato: lo scompaginamento degli attuali partiti, sconvolti da una simile iniziativa, esclusi Renzi, Berlusconi e dintorni. E questo per due motivi centrali. In primo luogo perché, spazzati via da Mani pulite, non ci sono più né il sistema dei partiti, né i partiti, né altri corpi intermedi. Oggi nessuna grande formazione è dotata degli elementi che costituivano il partito politico tradizionale, cioè visione, cultura, progetto, organizzazione, radicamento nel territorio e rappresentanza di classi e ceti. In secondo luogo, perché il centro del sistema della prima repubblica era costituito dalle formazioni che facevano riferimento alle tre grandi aree popolari e riformiste – cattolica, socialista e repubblicana – così caratteristiche della storia d’Italia e che finalmente nel secondo dopoguerra, col centrosinistra, erano riuscite a trovare una sintesi.
Sbaglierebbe chi vede nei 5 Stelle la prima vittima del governo Draghi: i grillini sono solo l’epifenomeno del disastro. La prima vittima è il Pd, la sua classe dirigente, ma non perché incapace di atti politici significativi nella gestione della crisi del governo Conte 2; anche quest’afasia potrebbe essere imputabile ad un grave errore tattico. Ma non basta.
La semplice verità è che il Pd non è un partito riformista. È un figlio senz’anima e non amato dell’unione tra ex Pci e sinistra Dd. A riprova, la sua incapacità a muoversi nell’alleanza con i 5 Stelle perché senza strategia, senza visione, senza progetto. Perché il Pd, l’unico partito-sistema italiano, non ha mai compiuto il passaggio alla socialdemocrazia. È il partito della conservazione degli interessi esistenti, dello statalismo delle corporazioni e delle burocrazie (questo non vuol dire che al suo interno non ci siano componenti e personalità con ideali riformisti). Non è il partito né del popolarismo cattolico, né del lavoro di Amendola o dell’orgoglio produttivo italiano di Bettino Craxi, per citare due campioni del riformismo. Lo dimostra il disinteresse assoluto per il Nord dimostrato da Zingaretti e l’odio vicino alla diffamazione per Renzi, ex figlio della Dc, portatore di una visione efficientista e pragmatica.
Una parola sulla Lega, unico vero partito dotato di rappresentanza autentica sul territorio del Nord. Salvini ha capito quanto stava accadendo e ha gestito bene la partita, spiazzando tutti. Tra propaganda e rappresentanza, tra slogan e gestione dei soldi in arrivo, tra felpe, governatori e sindaci del Nord, ha scelto le priorità giuste. Stabilità e stop alla guerra civile.
Ecco che oggi l’azione di Draghi e Mattarella, aperta da Renzi, ha riaperto i giochi. Alla politica, al paese a noi tutti dimostrare che esiste un’area riformista e popolare. Lo spazio questa volta si è aperto. Non sprechiamo questo tempo.
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