La chicca più chicca consiste nel cursus honorum di Luciana Lamorgese, la prefetto di ferro scelta da Conte e gradita da Mattarella per sostituire Salvini sulla poltrona di ministro dell’Interno, poltrona oggi spinosa più che mai per l’esigenza di cambiare tanto, se non tutto, su immigrazione e sicurezza senza smentire palesemente e dunque grottescamente il premier della continuità che guida il governo della discontinuità e che aveva controfirmato qualsiasi salvinume. Ma tant’è.



La vera chicca, si diceva, risiede nel fatto che la Lamorgese è potentina. Terrona direbbero a via Londonio. Che è stata vicecapo di gabinetto di Bobo Maroni, il detronizzato di Salvini; e capo di gabinetto di Alfano, l’uomo senza quid che aveva ambìto a sostituire Berlusconi nel ruolo di capo del centrodestra, anche lui. Una specie di nemesi storica, per Salvini: anche se legittimata, nel caso della Lamorgese, da indiscutibili competenze tecniche. Si vedrà.



Ma tante altre cose andranno viste. Per esempio la coabitazione pacifica tra le istanze sull’autonomia formalizzate dalle tre Regioni-locomotiva, Lombardia Veneto ed Emilia-Romagna, e spiaggiate come un capodoglio legislativo sul bagnasciuga di un governo con la più alta concentrazione di meridionali mai vista, se si considera che 12 ministri su 23 (Conte compreso) sono del Sud.

E si dovrà capire come un intellettuale di vaglia, un docente universitario per merito, un valente storico prestato all’economia cioè il neoministro Roberto Gualtieri potrà coabitare con la madrina (ne fu prima firmataria) del reddito di cittadinanza Nunzia Catalfo, ministro del Lavoro, o come lo stesso ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli.



Intendiamoci: la Catalfo è una che ha sempre lavorato, e forse per questo non si è laureata. Ma il lavoro sa cos’è. È un pochetto estremista di centro, grillina pura in questo: però malleabile, nel senso intellettuale del termine. Così come lo è Patuanelli.

Un buon mediatore, ottimo professionista (è ingegnere) prima che politico, si è distinto sempre – anche nei forbiti e frequenti discorsi in Parlamento – per una marcata tendenza alla mediazione, che gli antipatizzanti hanno più volte definito cerchiobottismo. Di lui si sa che nel 2013, quando Napolitano incaricò Letta, era a Udine nel camper di Beppe Grillo che voleva marciare su Roma per inscenare una protesta di piazza e ne fu dissuaso dal consiglio della Digos. Un pacificatore, dunque. Gli servirà, quando aprirà i 160 tavoli delle crisi industriali aperti al ministero.

Su questi ed altri colleghi dovrà fare affidamento, ma soltanto fino a un certo punto, il vero pivot della politica economica del governo Conte due, cioè il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. E di lui ci si può fidare, come persona. È stato tra gli italiani più attivi e stimati di Strasburgo. E tra gli eurosauri è sicuramente uno di quelli che ha messo la faccia nella linea minoritaria ma seria di quelli che vogliono sì l’Europa unita, ma la vogliono diversa e sanno spiegare come.

Ha lavorato per rendere più elastico il vincolo del pareggio di bilancio. Propugna separazione tra attività finanziarie e commerciali delle banche e un’applicazione morbida del bail in. Auspica la trasformazione del Patto di stabilità in un “Patto di sostenibilità e crescita con una Golden rule sugli investimenti”, vuol potenziare il bilancio Ue finanziandolo con “digital tax, carbon tax e tassa sulle transazioni finanziarie” e chiede che migliori il coordinamento delle politiche economiche per evitare “squilibri come l’eccessivo avanzo delle partite correnti che ha oggi la Germania”.

E punta sul varo degli Eurobond, titoli di debito pubblico sovranazionali che la Germania vede come Dracula l’aglio ma che secondo Gualtieri “potrebbero essere acquistati dalla Bce per un programma straordinario di investimenti in capitale umano, ricerca, infrastrutture ed energie rinnovabili”. Auguri, ma tanti, a Gualtieri.