Il piano B è scattato la scorsa settimana, la prossima potrebbe aprire la strada al piano C. Il piano B passava per le dimissioni di Giuseppe Conte, l’appello di Sergio Mattarella alla responsabilità nazionale, un incarico esplorativo per vedere se è possibile andare avanti con la stessa maggioranza e con lo stesso capo del governo. E così è accaduto. Non solo. Il presidente Mattarella ha indicato a chiare lettere anche le priorità del prossimo esecutivo, cioè affrontare le tre emergenze: sanitaria, economica e sociale. E ha dato a Roberto Fico chiamato come presidente della Camera e come esponente del principale partito della coalizione, il Movimento 5 Stelle, appena quattro giorni per sciogliere l’intricatissimo nodo. Dunque, al massimo mercoledì sapremo. Se Fico non avrà successo, allora tocca al piano C, che consiste nel trovare il consenso per un governo d’emergenza, del presidente, di salute pubblica o comunque lo si voglia chiamare, allargando i confini oltre la maggioranza attuale.
Sappiamo che Forza Italia sarebbe disponibile, la Lega nicchia anche perché è divisa, ma nemmeno Matteo Salvini dice un no secco, l’unica fuori dallo schema sarebbe Giorgia Meloni. A chi affidare le redini in questo caso? I nomi ci sono già: la giurista Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, e Mario Draghi. Secondo indiscrezioni attribuite a buone fonti, si sarebbe già svolto un colloquio al Quirinale tra Mattarella e Draghi; non sappiamo che cosa si siano detti, è probabile che abbiano parlato di contenuti, del tipo come fare debito buono e non debito cattivo, ma non si può escludere che il capo dello Stato abbia sondato la disponibilità di Super Mario. Non mettiamo il carro davanti ai buoi, l’eventuale piano C (come Cartabia) è ancora un’ipotesi, bisogna attendere che Fico concluda i suoi incontri e tiri le sue conclusioni, ma è certo che gli ostacoli sono molti, di natura sia formale, sia sostanziale.
Seguendo l’agenda Mattarella, ne incontriamo una gran quantità. Si pensi alla riforma della giustizia e al ministro Bonafede che sarebbe stato sfiduciato dal Parlamento se Conte non si fosse dimesso. In tal caso la pietra dello scandalo è la norma sulla prescrizione, tuttavia l’Unione Europea si aspetta che il Recovery plan contenga una riforma robusta della giustizia civile; non si tratta solo di snellire i processi, bensì di rivedere in modo radicale tutte le procedure. E di questo non si parla, almeno non apertamente.
Proprio il pacchetto delle riforme è quello che resta più vuoto nel lungo catalogo confezionato dal Governo. Prendiamo il mercato del lavoro (e così veniamo all’emergenza sociale richiamata dal presidente della Repubblica): quanto potrà durare il blocco dei licenziamenti e che cosa succederà dopo? Su questo si confrontano almeno due linee opposte. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri vorrebbe procedere in modo flessibile, intervenendo sui settori e sulle imprese che non ce la fanno, lasciando però maggiore libertà di manovra a quelle che tirano e sono pronte a un energico rimbalzo. I sindacati resistono, preferiscono rinviare il più possibile; in particolare Maurizio Landini, segretario della Cgil, evoca uno scambio ineguale: il blocco si può allentare se nel frattempo viene ripristinato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Un altro casus belli riguarda le infrastrutture. Il Pd insiste sul rilancio dei cantieri, o meglio sull’avvio delle grandi opere ancora in attesa, mentre il M5s resta attaccato alle “piccole opere”. È tornato in ballo anche il ponte sullo stretto di Messina, con i piddini in maggioranza favorevoli e i grillini contrari. E sì che un’opera come quella consentirebbe all’Ilva di lavorare a pieno ritmo per anni. Ma non è un segreto che i pentastellati sono per ridimensionare il centro siderurgico se non proprio chiuderlo, come vorrebbe l’ala più radicale. Potremmo continuare perché spuntano dissensi su ogni pagina del piano, persino sul capitolo dell’energia verde che in teoria dovrebbe essere il meno controverso: il fatto è che i grillini vogliono finanziare solo le fonti rinnovabili, mentre il Pd ragiona su un sistema integrato che coinvolga in modo rilevante il gas finché non sarà completata la transizione.
È possibile trovare un compromesso, anche se le posizioni di partenza sono lontane in tutti i dossier caldi. A questo punto, però, torniamo alla casella di partenza: chi farà da mediatore e da garante una volta trovata l’intesa? Chi assicurerà il consenso sulle questioni di fondo consentendo così al nuovo esecutivo di governare e di farlo meglio del Conte bis? Forma e contenuti sono strettamente collegati, come nella logica aristotelica. Purtroppo in Italia alla logica della politica si preferisce la politica della logica.