La “zattera della Medusa” (alias Pd) e “la nave dei folli” (leggi M5S) sembrano muoversi ormai su rotte diverse, se non opposte, e di qui a martedì prossimo entrambi i vascelli rischiano di fracassarsi. Zingaretti chiede discontinuità e Di Maio ripropone Conte, il segretario del Pd intende smontare quel che ha fatto il Governo giallo-verde e il capo politico dei grillini vuole come pregiudiziale il taglio dei parlamentari. Ma se questi sono i contenuti della trattativa, allora sembra proprio che entrambi i contendenti stiano giocando la partita sbagliata. Ammesso che riescano a trovare una mediazione, difficilmente con queste premesse sarebbero in grado di presentare al presidente della Repubblica Mattarella un Governo che potenzialmente duri fino al 2023 e concluda la legislatura nei suoi termini naturali. Gli scogli veri, infatti, non sono quelli dei quali si parla, ma quelli dei quali, purtroppo, non si parla.



Il primo è la recessione. Il secondo, a esso strettamente collegato, è il bilancio pubblico, quindi la manovra da presentare a ottobre. Il terzo non è tanto smontare le legge precedenti, attività alla quale sono affezionati quelli del Pd come lo erano a loro volta sia la Lega che il M5S, ma montare qualcosa per il futuro. Ci sono 13 miliardi già stanziati per investimenti in infrastrutture che non vengono utilizzati, di questi quasi la metà, per l’esattezza 6,3 miliardi, sono l’eredità dal ministro Toninelli: i suoi no adesso si trasformeranno in sì? Beato chi ci crede.



Colpisce davvero, stando a quel che si legge sui giornali, l’assenza dal negoziato di un vero allarme sulla congiuntura economica. In sostanza, si continua a sperare che super Mario (Draghi) ci aiuti come una sorta di buonuscita perché con Christine Lagarde sarà un’altra musica, nonostante le rassicuranti dichiarazioni ufficiali. Per mettersi al riparo da una nuova crisi un Governo serio dovrebbe dire agli elettori che il problema di fondo si chiama crescita zero e questa deriva non dalla frenata tedesca (che pure dà il suo contributo), ma dalla bassa produttività del sistema Italia, quindi bisogna rimboccarsi le maniche, preparando le scelte necessarie a invertire una tendenza di lungo periodo che ogni recessione aggrava. Ridurre l’onere fiscale sul lavoro, incentivare gli investimenti privati, far partire quelli pubblici, almeno quelli per i quali ci sono risorse già stanziate: questo sarebbe il trittico virtuoso di una politica economica anti-ciclica.



Prima produrre poi redistribuire deve diventare un mantra. Ma distribuire è comunque importante. Il modo in cui lo si è fatto finora è nello stesso tempo iniquo e inefficace. Tuttavia ricominciare da capo è una solenne sciocchezza. E ricominciare, poi, da dove? Sappiamo che all’attuale vertice del Pd viene il mal di pancia solo a sentir nominare il Jobs Act. Non parliamo della Cgil e dei grillini. Bisogna smontare anche quel provvedimento che comunque ha creato un milione di posti di lavoro? Un non senso assoluto. Pensiamo piuttosto a rimontare. Che cosa?

È possibile trasformare il redito di cittadinanza in un provvedimento ben fatto per adottare un modello simile a quello dei paesi del nord Europa. Con politiche attive del lavoro serie, senza navigator e stregoni del Mississippi, risparmiando tempo, denaro e colpendo gli abusi. Quanto alle pensioni, quota 100 ha messo in luce le sue contraddizioni, ma abolirla adesso peggiora la situazione. Meglio pensare dall’anno prossimo a rimodulare con flessibilità l’età pensionabile, utilizzando per questo i risparmi derivati dal flop della misura per la quale tanto si è battuta, con testardaggine rivelatasi ottusa, la Lega di Matteo Salvini.

C’è poi il grande cantiere delle tasse. Detto che la priorità resta il peso sul lavoro, bisogna sciogliere subito il nodo delle imposte indirette e disboscare la giungla fiscale. Vasto programma, ma qualcosa si può fare. Intanto si può sdrammatizzare l’aumento dell’Iva procedendo in modo realistico come suggerisce il ministro Tria. La bassa inflazione consente di ridurre una delle due aliquote inferiori (4% e 10%) redistribuendo il mix di beni tassati. Ciò potrebbe far recuperare fino a 6-7 miliardi. Le risorse da recuperare per sterilizzare le clausole di salvaguardia per il 2020 scenderebbero a 16-17 miliardi. Il taglio della giungla ha un potenziale mica male. È stato calcolato che ci sono almeno 513 agevolazioni le quali provocano una perdita di gettito pari a 61 miliardi di euro. È un’operazione complessa che richiede tempo, ma si può cominciare subito ricavandone primi benefici.

Tutto questo lascia comunque scoperto l’obiettivo principale: ridurre la pressione fiscale cominciando dal costo del lavoro. Matteo Salvini ha sbandierato la sua manovra da 50 miliardi. Togliendo i 23 del’Iva più 5-6 miliardi di spese non comprimibili, scenderebbe a una quota più modesta che comunque è fuori bilancio se si vuole, come lo stesso Salvini adesso dice, un disavanzo pubblico inferiore al 3%. Un Governo coeso e fatto per durare potrebbe mettere in campo un piano di riduzione delle imposte su base triennale, cominciando a piccoli passi con una accelerazione al terzo anno. È quel che gli stessi giallo-verdi avrebbero dovuto fare, ma hanno preferito spendere quel poco che c’era per quota 100 e reddito di cittadinanza. Lo farà un eventuale governo giallo-rosso?

Oggi come oggi, non sembra proprio. Eppure sta qui il grande scoglio. La recessione e le tasse sono Scilla e Cariddi, non le poltrone, né il numero dei parlamentari.