La riforma del Patto di stabilità è un compromesso, lo ha detto Giancarlo Giorgetti, lo riconoscono tutti. In realtà, è una catena di compromessi. Il primo si chiama guadagnar tempo e questo avvantaggia l’Italia e la Francia in primo luogo. L’aggiustamento dei conti, a cominciare dal disavanzo pubblico, avverrà in quattro anni. Fin dal prossimo i Paesi che non rispettano i tradizionali parametri saranno sottoposti a procedura d’infrazione, ma gli effetti si vedranno sui bilanci pubblici dell’anno successivo. Chi ha un disavanzo superiore al 3% dovrà portarlo sotto l’1,5% del Pil, quindi molto meno del tetto previsto dal vecchio Patto di stabilità, ma il rientro sarà più morbido. Si tratta di tagliare mezzo punto percentuale l’anno, anzi lo 0,3% escludendo il rialzo dei tassi d’interesse.
Una simulazione del think tank europeo Bruegel prevede un risparmio per l’Italia rispetto al passato; chi se la vedrà davvero brutta è la Francia (seguita dal Belgio), perché paga meno interessi sul debito, quindi lo sconto sarà minore, a fronte di un disavanzo più alto di quello italiano. Dunque per Parigi prendere tempo è importante forse ancor più che per Roma.
La Germania ha ottenuto in cambio che fossero fissati paletti uguali per tutti in modo da evitare un eccesso di arbitrio da parte di Bruxelles e un mercato delle vacche con governi amici. È il secondo compromesso e in realtà pesa anche su Berlino che, tra i pasticci combinati quest’anno e la regola del pareggio del bilancio, si sottopone a una politica fiscale austera proprio mentre la sua economia ristagna. Il Governo Scholz, già claudicante, sarà sottoposto a un fuoco di fila dell’estrema destra. Ma c’è da attendersi che anche Macron venga preso di mira non appena Marine Le Pen avrà realizzato che la Francia dovrà stringere la cinghia.
Il terzo compromesso riguarda la flessibilità. È il mantra che ha accompagnato l’intero dibattito, è il metodo che piace all’Italia e alla Francia, non alla Germania. Ma anch’esso nasconde molte trappole. La prima riguarda la Commissione che uscirà dalle elezioni europee del prossimo giugno. Non sappiamo come saranno i nuovi equilibri politici, però anche se venisse confermata, la “maggioranza Ursula” sarebbe più risicata e debole; dovrebbe tener conto dell’onda sovranista sia pur minoritaria e affrontare un difficile processo di allargamento che per forza di cose colloca i Paesi del centro-est in una posizione chiave. Dunque, si può scommettere che le trattative per calibrare il processo di aggiustamento saranno molto complicate.
Ciò apre la porta alle maggiori incognite sulle clausole di salvaguardia. Non è chiaro come decidere quando farle scattare e come. Giustamente si introduce il contributo degli investimenti e delle riforme, ma sarà difficile stabilire quali riforme considerare efficaci e quali no, senza cadere in giudizi che inevitabilmente sono qualitativi. La trattativa sui piani quadriennali potrà diventare l’arena di contrasti politici laceranti.
I Paesi in procedura d’infrazione non riporteranno il deficit sotto il 3% prima del 2027, ma se allora il ciclo economico fosse negativo bisognerebbe allungare i tempi dell’aggiustamento a meno di non ricadere nel vizio pro ciclico del vecchio Patto di stabilità. E se l’economia fosse in crescita, i Paesi dovrebbero prevedere dei surplus di bilancio consistenti, rischiando così una stretta con ricadute negative sulla domanda interna. Ecco che la stupidità del Patto come l’ha chiamata Romano Prodi, uscita dalla porta rientrerebbe dalla finestra.
Così arriviamo all’altro compromesso. I Paesi che hanno un deficit superiore al 3% e un debito oltre il 90% del Pil dovranno fare gli sforzi maggiori riducendo il debito di un punto percentuale l’anno e portando il deficit sotto l’1,5%. In questa scomoda situazione l’Italia non è sola, ma certo è la più esposta. Quanti sacrifici dovrà fare? Rispunta l’odiata austerità? Si cominciano a fare alcuni calcoli e i pareri sono discordi. È vero che l’aggiustamento avviene in tempi lunghi, ma chi s’è mosso in modo troppo cauto e non ce l’ha fatta nei primi quattro anni dovrà compiere salti mortali nei tre anni successivi.
Secondo alcuni economisti, con la regola dell’un per cento ci vorranno 40 anni all’Italia per scendere al 100%. Quanto all’avanzo primario (al netto degli interessi) dovrebbe arrivare tra il 3% e il 4%, una quota che l’Italia ha già raggiunto tra la fine degli anni ’90 e il 2004 (ed è rimasta in attivo fino alla crisi del 2008). Dunque sarebbe sopportabile. Tuttavia proprio in quegli anni il tasso di crescita del Paese si è costantemente ridotto, per un decennio è rimasto in media poco sopra lo zero. Insomma, un bilancio rigoroso s’è accompagnato a una lunga stagnazione. Non c’è un rapporto unilineare di causa ed effetto, è possibile crescere senza finanze allegre (anzi, dovrebbe essere questa la regola proprio per avere risorse disponibili quando scoppiano le crisi). Eppure il passato incombe come un’ombra oscura sul presente e sul futuro.
Il compromesso raggiunto è il minore dei mali? Forse, ma “rappresenta un’occasione perduta”. Non lo dicono gli euroscettici, bensì europeisti al 100% come Marco Buti capo di gabinetto di Paolo Gentiloni e l’economista Marcello Messori. Di riforma del Patto si discute da anni e la montagna ha partorito un topolino. Sono rimasti parametri inattuali e sbagliati aggiungendone altri che di fatto li rimettono in discussione come il deficit all’1,5% e il debito al 90% del Pil, con complicati se non cervellotici criteri per calcolare le condizioni e le conseguenze del processo di aggiustamento. La crescita viene data per scontata, non come condizione stessa dell’equilibrio dei conti. Si è aumentata non tanto la flessibilità, quanto l’incertezza, se non l’arbitrio, affidando alla Commissione poteri di indirizzo che rischiano di entrare in contrasto con gli interessi e le scelte dei singoli Paesi. Non è stato fatto nessun passo avanti verso la costruzione di un bilancio e una politica fiscale comune, cioè la via maestra per trovare stabilità e crescita. È rimasta aperta, così, quella contraddizione che nel 2010-2011 aveva portato l’euro e l’intera Unione sull’orlo del crac.
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