La Commissione europea, mercoledì scorso, ha presentato le nuove linee guida per riformare il “Patto di stabilità e crescita”. Si è trattato di una cerimonia sconcertante, con due giornalisti (una irlandese e uno belga) che hanno a gran voce ricordato che i Commissari dimenticavano che negli anni della crisi prima e della pandemia poi tanti sono stati contaminati con gravi sofferenze, altri sono morti e altri ancora hanno perso il posto di lavoro: migliaia di cittadini e di lavoratori e di famiglie europee hanno subito le conseguenze di una politica liberista che dura ormai in Europa con un’intensità crescente da più un trentennio. Eppure, dalle parole di Gentiloni e di Dombrovskis scaturiva il messaggio che nulla mutava: l’insieme di regole per coordinare le politiche economiche degli Stati membri dell’Ue erano sempre le stesse, giustificato dal presupposto superbamente rimarcato, dietro le fumisterie retoriche, che la prima determinazione doveva essere limitare il ricorso al debito e tenere sotto controllo i bilanci.
“Quel che conta è che ci sia un trend di riduzione del debito. Questo è quello che conta e questo credo sia anche l’interesse dei singoli Paesi, penso ci sia un interesse a una tendenza alla riduzione credibile, plausibile, del debito”, spiegava il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, nella conferenza stampa.
“Vogliamo mettere finalmente sullo stesso piano crescita e stabilità e lavorare efficacemente per raggiungere entrambi”, precisava Gentiloni e sosteneva che ci si era proposti di riformare la governance Ue: “Le proposte che presentiamo oggi mirano a conciliare tre imperativi, complementari e non contraddittori: sostenere la crescita e migliorare la sostenibilità del debito, rafforzare la titolarità nazionale delle decisioni economiche, politiche fiscali, riforme e investimenti. Obiettivo della riforma è semplificare le nostre regole pur preservando la loro intelligenza”…
E su Twitter la presidente della Commissione Ursula von der Leyen così commentava: “Abbiamo bisogno di un quadro comune semplice e trasparente e di una più forte titolarità degli Stati membri. Questo Patto di stabilità e crescita intelligente produrrà risultati, grazie a maggiori responsabilità e meccanismi di applicazione più forti”. Certamente, la debt rule, secondo cui gli Stati con rapporto tra debito pubblico e Pil superiore al 60% dovevano ridurre il proprio debito ogni anno di 1/20 rispetto alla quota eccedente il 60%, sarà sostituita da una stretta sorveglianza sui bilanci pubblici che si concentrerà su un solo indicatore: il percorso “concordato” che obbliga lo Stato membro a una riduzione della spesa netta, con conseguenze devastanti che approfondiranno i danni già provocati dai tagli di spesa non razionali e non rivolti all’eliminazione delle rendite ricardiane, ma che opereranno, invece, nella prassi storico-concreta, secondo le relazioni di potenza che continueranno a esistere tra i singoli Stati, al di là di ogni retorica, come si è già drammaticamente reso evidente in un settore tanto significativo e drammatico come le “regole” europee sull’immigrazione, con il guizzo dispotico francese contro le posizioni italiane, concordate prima e disdette poi in un attimo, quando sono parse dirette a sottolineare la debole maggioranza parlamentare macroniana.
Una volta entrato in vigore l’aggiornamento, la Commissione stilerà un piano della durata di quattro anni di aggiustamento del debito e gli Stati negozieranno volta a volta, con la Commissione, come perseguirlo, pena la sospensione dei finanziamenti europei. Così si legge nella comunicazione della Commissione relativa al tema: “La Commissione europea controllerà costantemente l’attuazione dei piani. Gli Stati membri presenteranno relazioni annuali sullo stato di avanzamento dell’attuazione dei piani per facilitare un monitoraggio efficace e garantire la trasparenza”. Gli anni possono salire a 7 se il piano “è giustificato” da riforme e investimenti. La Commissione auspica un’intesa sul nuovo Patto “prima delle procedure di bilancio degli Stati membri per il 2024”.
Mentre l’emergenza energetica sale e la recessione secondo molti si avvicina – nonostante la buona tenuta dell’industria manifatturiera in alcune industrie e in alcuni distretti – si è dovuto sentire Gentiloni così affermare: “Valutiamo di presentare entro il primo trimestre del prossimo anno le proposte in questo senso. Ovviamente, queste sono legate all’evoluzione del confronto fra i Paesi membri”. Un atteggiamento devastante per l’indifferenza “dinanzi al tempo che fugge mentre i dolori rimangono”.
Non si può a questo punto che ricordare l’interpretazione delle regole europee e della politica economica dell’Ue date da un grande pensatore come Wolfgang Streeck, il quale definiva quella politica economica e quelle istituzioni neo-cameralistiche che le implementavano come una sorta di “stato di consolidamento” che si era via via costruito per rispondere alla “crisi fiscale dello Stato”.
In Europa e in gran parte del mondo essa si era determinata per l’esaurimento della spinta della ricostruzione del secondo dopoguerra e del trentennio di crescita vigorosa che ne seguì. Il progressivo aumento del debito pubblico si intrecciò poi con la “finanziarizzazione” crescente dei processi economici, con le profonde trasformazioni delle istituzioni politiche che ne sono derivate e che sono dinanzi agli occhi di tutti noi e di cui su Il Sussidiario quotidianamente si discute. Con la ricerca di una stabilizzazione di natura monetaria la disoccupazione è via via diventata cronica sotto il controllo delle cosiddette “riforme neoliberiste”.
Nella secolare lotta tra potere sovrano dei Governi e il potere di generazione della moneta creditizia per via bancaria prevaleva sempre più, nell’Ue, il secondo. Di qui l’estensione della “leva finanziaria” esercitata sull’enorme massa di manovra del debito pubblico, che si è estesa alle imprese e, infine, alle famiglie.
Ma il percorso verso quello che Streeck definisce “lo stato del consolidamento” è reso sempre più difficile dal fatto che in condizioni di bassa crescita per la stagnazione secolare, l’austerità non fa che provocare un’ulteriore contrazione economica. Larry Summers, nel suo famoso saggio del novembre 2015 (Demand Side Secular Stagnation) sottolineava che”l’austerità distrugge la crescita futura, attraverso la distruzione degli investimenti”.
Per Streeck, l’economia neoliberista diretta dal “pilota automatico” e che Gentiloni e Dombrovskis hanno riaffermato essere il modello che guida le politiche dell’Ue verso una combinazione di libero mercato e di guida tecnocratica, fa crollare la partecipazione politica, perché le istituzioni democratiche nazionali sono neutralizzate dalla “governance” internazionale. Così viene formandosi il sempre più vasto spazio “vuoto” della depoliticizzazione, portatore di quel processo che molti hanno definito di “post-democrazia” e che noi continuiamo a studiare con crescente stupefazione del conformismo che ci circonda.
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