Il confronto sul “dove” e sul “come” costruire il nuovo stadio di Inter e Milan – tralasciamo volutamente il discorso sul “se” – dovrebbe spingere ad aprire una riflessione più ampia su cosa è Milano e come dovrebbe evolvere la gestione dell’area metropolitana più attrattiva d’Italia, l’unico grande agglomerato urbano nazionale destinato ad assumere nei prossimi anni le caratteristiche di quelle che nel mondo vengono ormai definite più città-stato che semplici metropoli. Gli urbanisti, così come i grandi investitori immobiliari, sono abituati a guardare ad agglomerati con queste caratteristiche, superando i tradizionali confini amministrativi. Una geografia umana che sembra faticare ad imporsi nella prassi politica e amministrativa.



Per capire le ragioni di questa difficoltà dovremmo provare a chiederci: dove incomincia e dove finisce oggi Milano? Se non possono più essere i confini amministrativi a definire la metropoli, si potrebbe rispondere pensando al perimetro delle tangenziali. Ma nemmeno questo confine forse basta più, qualora si volesse ragionare guardando ai prossimi 20-30-50 anni. Se le persone, le relazioni umane ed economiche, i flussi commerciali e di vita sono oggi riferimenti più efficaci, si potrebbe dire che Milano va da Rho a Orio al Serio, da Malpensa a Lodi, o che il Ticino, il Po, l’Adda e la Brianza fino quasi ai laghi sono i veri confini naturali della grande città del futuro.



È guardando a quest’area che andrebbero pensati i grandi progetti per le infrastrutture di trasporto, per i nuovi parchi e i nuovi boschi, per gli spazi della vita e del lavoro. Ed è partendo da questa dimensione che andrebbe trovato un più efficace modello di governo amministrativo, sicuramente più efficiente di come sta funzionando l’area metropolitana, non ancora decollata e forse già superata.

La candidatura ad ospitare lo Stadio lanciata da Giuseppe Bonomi, amministratore delegato di MilanoSesto, la società che gestisce la riqualificazione delle ex aree Falck, la più grande area dismessa d’Europa, può essere lo spunto – ma è soltanto un pretesto – per avviare una riflessione. Dal nuovo San Siro allo scolmatore del Seveso, dai poli universitari ai parchi del futuro, dai centri ospedalieri ai possibili spazi ricreativi di domani, quello cui si tende ad assistere è troppo spesso un braccio di ferro tra Comuni, una tenzone tra sindaci, una rivalità tra quartieri che si credono ancora città, non una più corretta rivalità tra proprietari di aree che si devono rapportare a un governo in rappresentanza dei milioni di cittadini che abitano una città-Stato.



Capire che occorre alzare lo sguardo, anche solo aprendo Google Maps per rendersene veramente conto, è diventato un passo necessario e urgente. Che si tratti di piste ciclabili lunghe decine di chilometri, di nuove metropolitane che non terminano nel nulla ma connettono nuovi luoghi di vita e lavoro, di stadi o di parchi, la vera sfida da considerare è quella che sta interessando tutte le grandi città del mondo: affrontare il conflitto latente (sociale e politico) tra centri urbani e periferie, generare spazi e opportunità diffuse di inclusione, contrastare l’espulsione delle famiglie dai luoghi più attrattivi, rendere vitali territori che, se condannati all’isolamento, rischiano di produrre nuove solitudini e ulteriori fattori di tensione sociale. E poi guardare al grande tema della sostenibilità ambientale, che richiede una pianificazione su larga scala, nutrendosi di spirito di collaborazione e senso responsabilità, non di spinte egoistiche o desideri di protagonismo.

Per tutto questo il sistema di governo della Grande Milano probabilmente non basta più.