Come ha sottolineato il premier Berlusconi al termine del vertice Ue d’emergenza a Parigi, una sola banca italiana, finora, ha dovuto varare una ricapitalizzazione: UniCredit. Per di più facendo ricorso esclusivamente alle risorse dei suoi grandi soci e di altri investitori già disponibili; e in ogni caso con il fine di riportare subito il suo principale indice di solidità patrimoniale (“core Tier 1”) dal 5,7% al 6,7%: Lehman Brothers e Northern Rock quando hanno cominciato a vacillare erano già sotto il 3 per cento.  Proprio UniCredit è del resto simbolo di quanto sta avvenendo a molte grandi banche del continente europeo, violentemente investite dall’onda demolitiva dei ribassi di Borsa, ma non certo “fallite”. E neppure vicina a quelle d’Oltre Manica, dove il Governo Brown sta varando in fretta una massicce nazionalizzazioni. In UniCredit (né presso le altre banche italiane, grandi e piccole) non ci sono correntisti in fila per entrare allo sportello e ritirare i risparmi, né dipendenti con lo scatolone in uscita dagli uffici dopo un fallimento. Di più: nel fine settimana, tra altri segnali, Alessandro Azzi, leader del Credito cooperativo italiano (10% del sistema nazionale) ha detto che le 440 Bcc stanno generando tuttora 5 miliardi di euro di liquidità in eccesso, pronta a essere reimmessa sull’interbancario via via che i Governi e le banche centrali svilupperanno le operazioni-fiducia. E dal summit parigino, seguito al G-7 di Washington, è infatti sortita principalmente la decisione di garantire per via pubblica i prestiti interbancari: il nervo scoperto del “credito” in tutto il mondo, punta di giunzione tra  il crollo delle Borse (che riguarda solo chi ci ha investito) e il più largo mondo di chi porta i suoi quattrini su un conto bancario o ha biosgno di un prestito per la sua impresa.



Tutto questo è avvenuto appena quattro giorni dopo un primo decreto d’emergenza varato dal Governo Italiano. Il suo perno – illustrato durante un’inusuale conferenza stampa serale di Berlusconi, del ministro Tremonti e del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi – è soprattutto la promessa di intervento statale del Tesoro nei capitali di quelle banche che richiedessero rafforzamenti accelerati. Sarà la Vigilanza della Banca d’Italia, ha detto Berlusconi, a stabilire caso per caso se vi siano urgenze e a verificare anzitutto se i soci di quelle banche siano in grado di immettere nuovi capitali o se i manager di quelle banche possano assicurare nuovi investimenti provenienti dalla Borsa. Solo in questo caso sarà chiamato il Tesoro, che in questo caso svolgerebbe la funzione di vero e proprio “commissario”. Pur sottoscrivendo nuove azioni privilegiate (cioè con più dividendo ma senza diritto di voto nell’amministrazione ordinaria), i banchieri delle banche “aiutate” sarebbero allontanati. E’ questo scenario ad aver creato allarmi di ogni genere in Italia: quasi certamente contro le intenzioni del premier che voleva invece stemperare la tensione.



Anzitutto – pochi giorni dopo il piano UniCredit – ha accentuato l’idea che le grandi banche italiane siano sull’orlo della crisi come quelle di Wall Street, quelle inglesi  o come il gigante immobiliare belga Dexia. Poi ha dato per prospettiva reale la parziale rinazionalizzazione del sistema e il ritorno del Tesoro come “grande fratello” delle banche italiane, come nuovo “azionista unico” anche di banche che pubbliche non sono mai state in più di un secolo di vita, come molte Popolari. E’ su questo versante che la promessa di aiuti di Stato – annunciata nell’interesse pubblico – rischia di trasformarsi in un “colpo di Stato” se venisse a mancare un necessario senso dello Stato e  venisse invece lasciato spazio alle “guerre per bande” nell’eterno risiko politico-finanziario. Il pericolo che di una spirale allarmistica (ribassi di Borsa tra crolli e speculazione; crisi di fiducia dei risparmiatori allo sportello; forte opportunità di aumenti di capitale) forzi un intervento statale di per sé non necessario e quindi stravolga oltre misura gli equilibri articolati di un’infrastruttura cruciale del sistema-Italia. I casi di UniCredit e del Banco Popolare sono emblematici. Ancora a metà 2008 la banca guidata da Alessandro Profumo ha annunciato utili per 2,9 miliardi di euro (non i 7 miliardi di perdita di Ubs) e il suo Tier 1 inferiore a 6  (limite ritenuto convenzionalmente  prudenziale dalle banche centrali)  è legato alla recente incorporazione di Capitalia, che aveva una situaizone patromonoale ed economica molto più debole. Operazione di sistema caldeggiata dalla stessa Banca d’Italia, fiduciosa nella forza economica e manageriale di UniCredit, che aveva già integrato una banca tedesca come Hvb. Ora invece Piazza Cordusio – principalmente per il crollo del titolo seguito alla fuga generale degli hedge fund dalle Borse – è considerato una “banca a rischio”. Il “corto circuito” ha colpito anche altri gruppi, come il Banco Popolare, capace, nell’arco di cinque anni, di integrare due consorelle pericolanti o compromesse come la Popolare  di Novara e quella di Lodi. Il Banco ha certamente dovuto gestire la crisi di Banca Italease, di cui è tuttora il maggiore azionista. Ma in nessun momento l’eccesso di rischio su derivati di Italease ha messo in reale difficoltà la stabiltà del gruppo veronese. Eppure venerdì scorso un quotidiano ha titolato: “Il Banco Popolare sarà il primo a essere salvato”. L’ingresso del Tesoro – dettagliatamente previsto dal decreto –  sarebbe deflagrante: sospenderebbe di fatto la governance cooperativa delle tradizionali “banche del territorio” in Italia. Una reazione a catena sarebbe nell’ordine delle cose: basti pensare alla Popolare di Milano, di nuovo nel mirino della Banca d’Italia per la struttura societaria fortemente condizionata dai dipendenti-soci. Profumo “dimissionato”, le Popolari nazionalizzate a forza: sarebbe un paradosso multiplo per un Paese che sta reggendo l’urto di una “crisi sistemica” mai vista grazie alle mura costruire in decenni dai suoi banchieri privati e di territorio. E che ha visto scomparire il sistema bancario al Sud, puntualmente salvato da quello del Nord, non viceversa.



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