Il direttore generale del Fondo monetario internazionale, l’ex ministro dell’Economia francese Dominique Strauss-Khan, è stato posto sotto inchiesta interna per una relazione con un’economista ungherese (oggi già trasferita dall’Fmi alla Bers) in presunta violazione del codice etico interno dell’istituzione. Il fatto è stato ammesso dallo stesso Strauss-Khan e quindi non dovrebbe prestarsi a ulteriori commenti, tanto meno dietrologici. Però alcuni interrogativi – magari dichiaratamente “in libertà” non sono vietati: giusto per capire se l’episodio è più tragico o più comico sul fondale della crisi finanziaria globale. O per trarne qualche segnale interpretativo o previsionale da un’angolatura laterale sui possibili “exit pattern”, soprattutto in direzione della ricostruzione di strutture e regole della supervisione globale su monete e mercati.
Era anzitutto opportuno, in questo momento, “azzoppare” pubblicamente (e forse definitivamente) una delle figure centrali della gestione dell’emergenza internazionale? Chi scrive noterelle è convinto di no, a prescindere da ogni valutazione etica sull’accaduto. Di più: chi scrive ha invece l’impressione – certamente non supportata da alcuna prova – che l’episodio possa essere stato strumentalizzato: questo per non spingersi addirittura oltre, sul terreno mai autorizzato dell’insinuazione pura. Però c’è un precedente troppo ravvicinato e troppo somigliante per non richiedere quanto meno una riflessione sui criteri di selezione del vertice operativo del Fondo monetario, l’agenzia creata per dare permanenza agli accordi di Bretton Woods e all’ordine economico-monetario del dopoguerra. Poco più di un anno fa, nel maggio del 2007, il predecessore di Strauss-Khan all’Fmi, l’ex governatore della Banca di Spagna Rodrigo Rato, annunciò le sue dimissioni all’improvviso. Le motivò riservatamente con “ragioni personali” ma fu subito inseguito, sulla stampa di tutto il mondo, da voci malevole su presunte infedeltà coniugali durante il soggiorno a Washington.
Due direttori generali consecutivi del Fondo Monetario, due europei come vuole la prassi. Entrambi colpiti duro all’improvviso (e per lo stesso motivo) nell’immagine: dunque nella credibilità, nella libertà di manovra, nel peso decisionale, nella stessa lucidità personale. Uno alla la vigilia dell’esplosione della crisi dei subprime (crack Northern Rock, agosto 2007), l’altro nel pieno del “meltdown” finale, quando ogni fine settimana – nella pausa di chiusura dei mercati – Governi e banche centrali sono costretti a summit di ogni genere per fronteggiare rischi sempre nuovi di collasso finanziario globale. Davvero possibile che l’Europa non riesca a inviare al Fondo un super-tecnocrate dalla vita privata non agitata? Possibile che per due volte il consigliere statunitense del Fondo – cui spetta per prassi l’indicazione formale del direttore generale – non avesse avuto istruzioni e affidamenti adeguati sul curriculum del candidato europeo? Se così è stato, la prima riforma di cui il Fondo ha bisogno è certamente quella di un miglior sistema per individuare i suoi top executive.
Se invece ci fosse dell’altro (chiamiamola “un’ipotesi alternativa” di interpretazione) allora è chiaro che sull’origine di questa “crisi epocale” si allungano nuove ombre: ben più gravi di quelle evocate sul Corriere della Sera dal politologo Giovanni Sartori sulle capacità previsionali degli economisti. Rato sapeva che le bolle dei subprime e derivati stavano scoppiando e voleva lanciare l’allarme? Oppure, più banalmente: quando ormai la crisi era innescata l’amministrazione americana ha voluto per lunghi mesi al Fondo una sede vacante? E perché oggi si è voluto indebolire Strauss-Khan, forse al punto da spingerlo alle dimissioni? Forse l’attivismo e la concretezza dell’Unione Europea a presidenza francese, esplicitamente lodati da Mario Monti sul Corriere della Sera? È per riaffermare un primato americano sempre più pericolante che il presidente uscente George Bush ha alla fine imposto che il G-8 straordinario si tenga a Washington e non altrove (per esempio in Italia come la rotazione avrebbe suggerito)?
Restano alcuni fatti e alcune prospettive. Tra i primi c’è sicuramente la correzione in corsa del piano Paulson: dotato di 700 miliardi di dollari per liberare le banche americane dagli “asset tossici” e trasformatosi improvvisamente in un piano di parziale nazionalizzazione delle 9 maggiori banche americane. Ed è stato chiaro che il Tesoro americano si è convertito in fretta e furia alle ben diverse scelte politiche di Gran Bretagna e Germania. L’ingresso statale diretto nei grandi gruppi creditizi inglesi deliberato da Gordon Brown e la maxi-assicurazione pubblica dei depositi bancari tedeschi varata da Angela Merkel hanno segnato un salto di qualità decisivo nella gestione della crisi, impantanata nella “trappola della liquidità”. Costringere le banche centrali a pompare banconote che nessuna banca si fidava più a prestare ad altre banche non ha prodotto nessun risultato: neppure nel frenare il crollo delle Borse, nonostante alcuni riflessi improvvisi.
Il problema non era salvare le investment bank di Wall Street, il problema vero è e resta ricreare il “credito” distrutto in tutto il mondo dai banchieri di Wall Street. E qui l’impulso è venuto senza alcun dubbio dal vertice Ue iniziato domenica 12 ottobre a Parigi. È stato lì che tutti coloro che avevano fino a poche ore prima partecipato ai consueti cocktail della sessione autunnale dell’Fmi hanno preso l’iniziativa: stringendo, per una volta, anche il canale della Manica, barriera storica tra la City di Londra e il modo di far banca del continente europeo. E l’ex presidente della Goldman Sachs, messo a capo del Tesoro americano, “azionista di maggioranza” del Fondo monetario, ha potuto solo accodarsi: regalando, tra l’altro, probabilmente la Casa Bianca al candidato democratico Barack Obama.
Predire come sarà la geofinanza globale tra dodici mesi è ovviamente impossibile. Può comunque non essere preoccupante che gli Stati Uniti abbiano voluto decapitare ancora il Fondo monetario alla vigila di una “vacatio” lunga e delicata al vertice dell’amministrazione Usa, che solo a gennaio sarà nuovamente a pieno regime. Se invece l’“affaire Strauss-Khan” è solo il primo dei colpi di coda di un mondo che non si rassegna a farsi da parte e che continua a confondere i propri interessi con quelli di un’America che si vorrebbe isolazionista, allora non è escluso che gli strascichi dell’11 settembre della finanza siano più pesanti di quelli dell’attacco alle Torri gemelle.