L’intervista del presidente della Bpm, Roberto Mazzotta, al Il Sole 24 Ore ha confermato che l’ipotesi di intervento pubblico nel sistema bancario è il tema prioritario – se non addirittura esclusivo – dell’immediata agenda politico-economica nazionale.

Il Tesoro entrerà già entro questa settimana nel capitale di UniCredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Banco Popolare, Ubi? Qualunque cosa accada, sarà certamente interessante osservare – e ascoltare – quasi tutti i protagonisti della vicenda convocati sullo stesso palco o nella stessa platea venerdì 31 ottobre per la Giornata del Risparmio: il ministro Giulio Tremonti, il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, il presidente dell’Associazione bancaria Corrado Faissola e il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti. Quest’ultimo rappresenta le Fondazioni che da un lato sono i grandi azionisti italiani della big bancarie e dall’altro controllano con il Tesoro la Cassa depositi e prestiti, candidata a essere il “fondo sovrano italiano”, veicolo dell’intervento pubblico nelle banche o quanto meno gendarme antiscalata.

Il decreto “salva-banche” emanato un paio di settimane fa, autorizza già Tremonti a sostenere le banche con l’iniezione di capitali pubblici sottoforma di azioni privilegiate (quindi senza diritto di voto nella gestione ordinaria). L’ingresso è però subordinato alla valutazione della Vigilanza della Banca d’Italia e Draghi, in concreto, negli ultimi giorni ha tacitamente appoggiato la linea più volte affermata dall’Abi e da singoli presidenti o amministratori delegati: il sistema creditizio italiano non vive sicuramente in un’isola felice nei mari della finanza globale in tempesta, ma è solido, non rischia fallimenti, non ha bisogni di quelle trasfusioni di quattrini pubblici che invece hanno salvato banche grandi e piccole negli Usa, in Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Germania, Svizzera.

Hanno quasi del tutto ragione. Anche UniCredit, che ha varato un piano di rafforzamento patrimoniale da 6,6 miliardi, sarà sorretto dai suoi soci e non dallo Stato. E la stessa Banca nazionale libica – che ha rilevato il 4,9% – ha investito puntando sulle buone prospettive della banca Ma non è tutto così semplice.

In Borsa, anzitutto, i titoli delle banche italiane continuano a crollare. Tutti i listini precipitano, senza far grande distinzione di area geografica o settore. Chi è esposto con liquidità propria cerca di recuperarla come può; chi investe soldi di altri (come anche i fondi comuni di investimento) è pressato dalle richieste di rientro. Per di più la crisi finanziaria sta diventando economica (recessione) e quindi non ci sono più neppure buone aspettative “fondamentali” di reddito dalle aziende.

Però le banche perdono più delle altre aziende e non c’è da stupirsi: da più di un anno le notizie sono drammatiche e talora tragiche. Banche grandi e prestigiose come Lehman Brothers sono state spazzate via dalla crisi dei subprime, colossi europei come Ubs, Dexia, Fortis, Rotal Bank of Scotland, sono stati salvati in extremis dai rispettivi Governi. Proprio per questo il titolo di una banca in crisi ma irrobustita da un’iniezione di capitale pubblico è più valutata in Borsa (anche da un’altra banca che presta fondi sul mercato interbancario) di una banca italiana ancora abbastanza sana, non bisognosa di aiuti pubblici, ma a questo punto con meno patrimonio.

E una banca con un titolo debole in Borsa è debole su almeno due fronti. Il primo: i depositanti (oltre che gli azionisti) cominciano a dubitare della sua solidità. In secondo luogo una grande banca può essere scalata (acquistata sul mercato o tramite Opa) con un investimento non elevato o comunque molto conveniente.

Per le banche – infrastrutture di un paese come i gruppi telefonici o energetici e forse anche come le autostrade e le compagnie aeree – aumenta quindi il rischio che cambino proprietà e, in concreto, finiscano sotto il controllo di investitori stranieri: ad esempio i fondi sovrani dei paesi produttori di petrolio, come ha apertamente paventato il premier italiano Silvio Berlusconi alla vigilia dell’ingresso libico in UniCredit.

Su questo sfondo la Francia ha annunciato a sorpresa nei giorni scorsi un ingresso relativamente “soft” nel capitale di tutte le maggiori banche private (Bnp, SocGen), cooperative (Credit Agricole) o pubbliche (Casse di risparmio). Lo Stato non ha messo in campo le centinaia di miliardi di euro della Gran Bretragna (che ha di fatto rinazionalizzato le grandi banche) o della Germania (che ha esteso la garanzia pubblica a tutti i depositi). Parigi ha invece impiegato meno di dieci miliardi di euro, sottoscrivendo obbligazioni subordinate (titoli che non sono azioni o strumenti di proprietà, ma hanno caratteristiche assimilabili). Ma ha lanciato due segnali importanti: ai depositanti e alle aziende che chiedono credito alle banche, Sarkozy dice che c’è la diretta tutela pubblica. Mentre ai possibili scalatori esterni si dice che dovrebbero vedersela direttamente con lo Stato francese, cioè con un no sicuro. Di più, Sarkozy ha messo in cantiere anche un “fondo sovrano” nazionale: la Cdc, l’equivalente della Cassa depositi e prestiti italiana.

Tremonti si è incamminato su questa strada e non è davvero facile accusare lui e il premier Berlusconi di voler strumentalizzare la crisi finanziaria per allungare l’influenza dello Stato (cioè dell’attuale Governo) sul sistema bancario. L’ingresso nelle banche a fini di “ordine pubblico” e di ricostruzione della fiducia sui mercati finanziari è difficilmente contestabile.

Tuttavia numerosi interrogativi restano. Il primo è se l’Italia possa permettersi un intervento anche minimo all’interno di un bilancio statale sempre stretto. È vero che la UE si avvia, probabilmente, ad allentare i vincoli sulle finanze pubbliche, ma è altrettanto vero che non sarà del tutto facile giustificare politicamente il dirottamento di ingenti risorse fiscali lontano da manovre di sostegno a imprese e famiglie, chiesto a gran voce dall’opposizione ma anche da settori della maggioranza. Le organizzazioni degli imprenditori vogliono aiuti pubblici a chi produce; i sindacati sollecitano più reddito alle famiglie in difficoltà: perché dar soldi a banche e banchieri? È vero, si dice, che l’intervento sarebbe a termine e che il risanamento del settore finanziario potrebbe addirittura risolvere a favore del contribuente l’operazione-ponte.

Poi ci sono i quesiti più da addetti ai lavori, ma non meno d’interesse generale. Tra le cinque maggiori banche italiane almeno due (Ubi banca e Banco Popolare) sono state sempre private: fin dalla nascita delle prime Popolari alla fine dell’800. Se il Tesoro entrerà distruggerà in un colpo una governance cooperativa e un legame col territorio che – soprattutto nella Pianura padana – sono state colonne portanti dell’economia e della società.

Ma più in generale – e il riferimento e ai due “campioni nazionali” UniCredit e Intesa Sanpaolo – la storia politico-economica dell’ultimo ventennio è stata caratterizzata da alcune direzioni irrevocabili nel riassetto del settore bancario: privatizzazione, concentrazione, sviluppo del ruolo della Fondazioni come soggetti sussidiari in grado di giocare da azionisti stabili di lungo periodo in raccordo con i distretti locali.

Anche questa “lunga marcia” dev’essere interrotta e magari cancellata? Per di più le banche italiane non sono fallite e hanno saputo tenersi relativamente lontane dai rischi più insostenibili della finanza strutturata. Queste banche, i loro manager, i loro azionisti, le stesse Fondazioni che ne hanno accompagnato la strategia, devono essere punite?