UniCredit sotto l’influenza di Mediobanca e Generali? O UniCredit e Intesa Sanpaolo in possibile avvicinamento al cantiere di un superpolo italiano? Sono giorni in cui sui mercati finanziari la realtà supera regolarmente (e spesso di molto) la fantasia, quindi non sembra fuori luogo lasciare un po’ correre l’immaginazione. La svolta maturata in Piazza Cordusio – con un consiglio d’amministrazione straordinario tenuto di domenica e un piano di rafforzamento patrimoniale da 6,6 miliardi di euro – non è del resto ancora completamente chiara nelle origini e nelle prospettive. Proviamo comunque ad andare con ordine, partendo dai fatti avvenuti e sulla base di congetture ragionevoli; sempre pronti, naturalmente, a incorporare in qualsiasi momento nuovi elementi e a correggere le interpretazioni.
Dopo una settimana di violenti e controversi ribassi di Borsa, la banca di Piazza Cordusio ha deciso velocemente di aggiungere cemento alle sua fondamenta patrimoniali. A prima vista, il percorso mostra analogie con i casi recenti delle belghe Dexia e Fortis, primi gruppi dell’Europa continentale a essere andati in crisi: assediati da voci non smentibili di buchi di bilancio provocati dalla crisi immobiliare globale e dai rischi su “titoli tossici” americani; poi messi al tappeto in Borsa e infine tenuti in piedi da iniezioni “salvavita” di miliardi di euro di capitali freschi da parte di tre Governi del Benelux. Ma sul piano sostanziale la vicenda di UniCredit presenta differenze inequivocabili.
Primo: la semestrale di Piazza Cordusio (cioè l’ultimo bilancio disponibile, al 30 giugno scorso) non presenta cifre preoccupanti, soprattutto sullo sfondo della crisi finanziaria americana, già segnata dai primi fallimenti bancari. Essendo parecchio internazionalizzato – dopo l’espansione nell’Est europeo e la fusione con la tedesca Hvb – il gruppo evidenzia certamente esposizioni non marginali verso titoli di cartolarizzazioni immobiliari e industriali, americane e d europee (comprese quelle che erano nel bilancio di Capitalia prima della fusione con Piazza Cordusio): ma né la redditività né gli equilibri tra attivo e passivo dello stato patrimoniale mostrano deterioramenti reali. Il coefficiente «core Tier 1» (cioè la base patrimoniale e il complesso delle attività totali “sostenute” da quel patrimonio) è al 5,5%: di poco inferiore al 6% ritenuto il minimo prudenziale dalle Vigilanze bancarie di tutto il mondo, ma allineato con quelli degli altri grandi gruppi italiani (Intesa San Paolo, Mps, Banco Popolare, Ubi Banca) ed europei. E resta in ogni caso superiore al livello 3 di Northern Rock o Lehman Brothers alla vigilia dei rispettivi fallimenti. È vero, d’altronde, che il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, presidente dell’International Financial Stability Forum, sta premendo sulle banche italiane perché raggiungano coefficienti di bilancio realmente tranquillizzanti e di best practice. Né può essere escluso, in via del tutto teorica, l’emergere di nuove perdite, anche se Alessandro Profumo, Ceo di UniCredit, è l’ultimo banchiere europeo da cui ci si attendono bilanci non corretti: si dimetterebbe lui per primo se scoprisse di essere stato (magari) ingannato da qualche sua unità operativa.
Anche per questo (ed è il secondo punto) il ribasso di Borsa (in parte invertito nelle ultime due sedute della settimana) non è stato mai direttamente legato a voci di “buco in bilancio”: anche l’esposizione emersa verso il salvataggio della tedesca Hypo Re non è tale di mettere a rischio la stabilità di UniCredit. Di più la Consob, allertata da un allarme su attacchi speculativi lanciato direttamente dal premier Silvio Berlusconi – ha effettivamente accertato che sul titolo UniCredit sono state poste in essere operazioni al ribasso, tramite un intermediario internazionale con uffici in Italia.
Terzo e non meno importante fatto: UniCredit ha effettivamente ritenuto di avviare un piano di ricapitalizzazione, ma rivolgendosi esclusivamente al mercato privato, senza neppure l’ipotesi teorica di intervento di capitali pubblici. Il piano approvato dal board consta di due parti: un aumento di capitale gratuito, sotto forma di nuove azioni da distribuire ai soci in luogo del dividendo (in pratica ai soci viene chiesto di “lasciare in banca” la loro parte di utile 2008, che verrà capitalizzata). La seconda tranche del piano da 6,6 miliardi sarà invece un prestito obbligazionario convertibile offerto in opzione agli attuali soci (e le Fondazioni bancarie di Verona, Torino e Modena per prime hanno già dato disponibilità a sottoscriverlo), mentre il resto sarà chiesto al mercato e garantito da Merrill Lynch e Mediobanca. Come si vede, si tratta di un’operazione in tutto e per tutto privata e di mercato: l’esatto opposto del salvataggi pubblici di Dexia e Fortis, del colosso assicurativo americano Aig e perfino di Bear Stearns, che è stata fusa in JPMorganChase dopo un’abbondante iniezione di liquidità della Fed. Ma allora in cosa consiste il “caso UniCredit”?
È probabile che ci troviamo di fronte a un primo test significativo del riassetto bancario che inevitabilmente la crisi finanziaria globale induce anche in Europa. Che la struttura creditizia sia destinata a cambiare anche nel Vecchio Continente lo ha certificato del resto il G-4 tenutosi nel fine settimana a Parigi con la partecipazione del premier italiano. E la mossa della Germania di assicurare i depositi delle banche tedesche ne è un primo significativo passaggio. Proprio in Germania, del resto, la “foresta pietrificata” si è messa in moto nelle ultime settimane con le fusioni tra Dresdner e Commerz (patrocinata dall’Allianz) e la privatizzazione di Postbank presso Deutsche Bank.
In Italia non è sorprendente che si sia partiti da UniCredit e in maniera decisamente movimentata. La banca guidata da Profumo, nei suoi storici intenti, è una public company, non a caso presidiata di fatto da alcune Fondazioni che non fanno parte dei circuiti dei tradizionali poteri forti bancari (ed editoriali). UniCredit e Profumo hanno costruito le loro fortune in Borsa, coi risultati di bilancio l’aumento tendenziale del valore del titolo e le pionieristiche fusioni e acquisizioni strategiche (in Italia, in Germania, nell’Est Europa). È ovvio che sia la più esposta anche alle ansie, alle turbolenze, perfino a “colpi proibiti”delle Borse. Detto questo, è suonato davvero strano il duro attacco personale lanciato dal Financial Times contro Profumo, accusato di essere un dilettante troppo ambizioso dopo essere stato per un decennio il beniamino acclamato della City. E mentre la Consob sta cercando di dare un volto all’operatore che ha innescato la miccia dei fuochi d’artificio sul titolo di Piazza Cordusio, nessuno scenario può essere scartato.
Si è detto, anzitutto, che sia stata fatta pressione su Profumo – forse anche da alcuni soci di UniCredit – per un aumento di capitale vero e proprio. Ovvio che il top manager abbia resistito, non volendo dare adito ad alcune voce di “buco nel bilancio”. Ma forse anche per un’altra ragione: chiedere sul mercato molti miliardi di euro di equity avrebbe di fatto aperto le porte a nuovi soci forti. Fondi sovrani come quelli libici o russi informalmente candidati per Telecom? Più probabilmente Mediobanca e Generali: entrambe ben dotate di mezzi. Piazzetta Cuccia, in particolare, è reduce dalle tensioni estive sulla governance tra il presidente Cesare Geronzi (spalleggiato soprattutto dai soci francesi) e lo stesso UniCredit. E Geronzi, candidato alla guida delle Generali la prossima primavera (lo dovrebbe sostituire Marco Tronchetti Provera, neo-vicepresidente di Mediobanca) è tradizionalmente banchiere abituato a muoversi attraverso istituti tradizionali, che fanno credito sul territorio a clientela imprenditoriale. Inoltre l’ex presidente di Capitalia non è mai stato in cattivi rapporti coi leader delle Fondazioni di Verona (Paolo Biasi) e di Torino (Fabrizio Palenzona) grandi azioniste di UniCredit. L’idea di giocare d’anticipo sul riassetto europeo e mettere in cantiere un raggruppamento UniCredit, Generali, Mediobanca con quest’ultima al vertice e un solido reticolo di partecipazioni incrociate può essere stato tra i fattori di spinta agli avvenimenti degli ultimi giorni. E può caratterizzare anche le prossime settimane, quando è probabile che nei singoli stati dell’Unione europea, vengano avviate maxifusioni per salvare gruppi in difficoltà e magari col supporto temporaneo dello Stato: con l’effetto finale, comunque di costruire poli ancora più grandi. Negli Stati Uniti, del resto, la super-crisi ha lasciato vivi quattro mega-poli: JPMorgan Chase, Citigroup, BankAmerica e Wachovia-Wells Fargo. Il “nome del gioco” (anche nel caso di quello appena iniziato su UniCredit) è dunque questo. Ed è per questo che, tra le voci saettate in settimana a Piazza Affari, si è già registrata quella di fusione tra Piazza Cordusio e Intesa Sanpaolo. Impensabile alcuni mesi fa e certamente guardata con cautela dalla Banca d’Italia che già con Antonio Fazio osteggiò nel 2001 un “merger” Intesa-UniCredit, mentre Capitalia e Sanpaolo-Imi erano ancora indipendenti: la “fusione finale” milanese appariva troppo ambiziosa, eccessiva per lo stesso pluralismo economico nel Paese. Oggi invece è già tanto che una media potenza regionale come l’Italia possa permettersi, in apparenza, di scegliere su come riaggregare banche messe alla prova dalla crisi ma fortunatamente non affondate. Sarebbe invece imperdonabile se le divisioni tra poteri e potentati – politici, finanziari, istituzionali – consentissero ad altri paesi di tamponare le rispettive falle bancarie o a fondi sovrani estranei alle democrazie europee di diventare più competutivi sugli scacchieri geopolitici rivoluzionati grazie a UniCredit.