Il compito era davvero complicato sia per un maestro della comunicazione come il premier Silvio Berlusconi, sia per due tecnocrati pochissimo telegenici come il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi.

Illustrare il decreto d’urgenza del Governo sul sistema bancario alla prova della crisi globale era ultra-impegnativo proprio perché significava pattinare sul ghiaccio ormai sottilissimo anche in Europa del “credito pubblico”: che non è aumentabile da un giorno all’altro, gestibile né con una statalizzazione nazionalizzazione degli istituti, né con un taglio di tassi, né con aumento di garanzia ai depositanti. E anche se potrà non piacere a molti avversari del premier e del ministro, il virgolettato “nessuna banca italiana fallirà” e “i vostri risparmi sono al sicuro” sono stati più importanti dell’annuncio di un maxi-piano come quello nazionalizzatorio varato dal Governo inglese: (500 miliardi di sterline) che – come quello americano (700 miliardi di dollari) – ha infatti certificato che il sistema bancario locale è semidistrutto e che i conti li pagheranno i contribuenti, ammesso che abbiano nei prossimi anni di che pagare le tasse.

In Italia le banche non sono/non sembrano – forse per la totalità del sistema – sull’orlo del dissesto (Draghi ha ribadito la sua fiducia nella solidità) e d’altro canto il bilancio pubblico non ha riserve di mezzi o capacità di indebitamento di altri partner europei. Anche un (modesto) piano da 20 miliardi per interventi diretti del Tesoro nelle banche in eventuale difficoltà, ieri sera è stato smentito. Così come la “garanzia statale” per i depositanti va ad aggiungersi a quella del Fondo autogestito dalle banche stesse e quindi è una misura formale: ma è anche vero che se le maxi-assicurazioni varate dal Governo Merkel dovessero davvero entrare in funzione, l’instabilità monetaria in Germania si avvicinerebbe a quella spaventosa degli anni ’30.

Tremonti, dopo aver incontrato il presidente dell’Abi Corrado Faissola, ha sottolineato che interverrà “caso per caso” in banche dai bilanci non a prova di bomba e sarà comunque la Banca d’Italia a valutare l’opportunità di aumento di capitale e l’insufficienza dei mezzi eventualmente già resi disponibili dagli azionisti.

Può sembrare anche questa una logica burocratica, incapace di cogliere le ansie del risparmiatore che ha già la tentazione di correre agli sportelli e prelevare contante dai suoi conti. Eppure – se naturalmente non intervengono peggioramenti ulteriori e non emergono buchi nascosti in qualche istituto – è ancora una volta meglio così: la privatizzazione delle banche in Italia, attesa per sessant’anni e realizzata poi in quindici, non può essere cancellata in un mese. Portando poi magari nell’orbita pubblica banche come le Popolari che – in quante cooperative private sul territorio – sono sempre state l’esatto contrario del controllo pubblico centrale.

Ridare al ministro del Tesoro – anche sottoforma mediata di azioni privilegiate di minoranza – il ruolo di Grande Fratello del credito, soprattutto se non ne emerge stretta necessità, non appare una mossa lungimirante.

In concreto: UniCredit è una banca che ancora a giugno ha annunciato utili (veri) miliardari; può aver registrato perdite inattese su alcuni titoli (lo ha riconosciuto l’ad Alessandro Profumo), ma può darsi che non vada mai neppure in rosso e tanto meno fallisca. In ogni caso sta provvedendo da sé al rafforzamento patrimoniale e un domani se avesse bisogno di una cornice strategica più ampia sarebbe opportuno esaminare le opportunità che offre il mercato: ad esempio una fusione con altre banche italiane o un ritorno di peso delle Fondazioni (enti sussidiari, non statali).

Berlusconi, Tremonti e Draghi, dicendo (e promettendo di fare) apparentemente poco, hanno in realtà trasmesso abbastanza sicurezza. E questo perché il sistema bancario italiano è un valore accumulato nei decenni e (speriamo) non dilapidato in una manciata di mesi com’è stato per molte casate di Wall Street.

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