Sabato mattina, tutti i principali quotidiani italiani hanno acceso fari luminosi sulle banche centrali. L’editoriale de Il Sole 24 Ore, a firma di Fabrizio Galimberti, si è chiesto apertamente se «è possibile dir male della Bce», dopo la delusione inferta ai mercati col taglio di “appena” 50 punti base rispetto alla riduzione di 150 decisa dalla Banca d’Inghilterra. Su Repubblica, Alessandro Penati è tornato far sentire la sua voce criticando sia la Fed che la Bce per aver fatto politica monetaria troppo in funzione della crisi dei mercati, dopo aver fatto assai poco per prevenirla. Su Il Corriere della Sera, infine, Lorenzo Bini Smaghi, componente italiano del comitato esecutivo della Banca centrale europea, ha difeso non solo l’operato di Francoforte, ma anche la diversità strutturale dell’economia europea e quindi una “different way” di gestire l’euro.
Il merito del dibattito – che è globale – è importante tanto quanto il suo contesto: all’indomani della svolta alla Casa Bianca e alla vigilia di un G-20 straordinario sulla crisi finanziaria che – nel prossimo fine settimana a Washington – comincerà anche ad aprire l’istruttoria sulle responsabilità. A fine 2008 non è del tutto fuori luogo immaginare che il crack di Wall Street sia stato una sorta di “crimine contro l’umanità”: i dipendenti dell’industria dell’auto a Detroit – i primi americani in assoluto a cui il presidente neo-eletto Barack Obama ha promesso che provvederà con aiuti pubblici – non sono certo dei sopravissuti ad Auschwitz, ma rischiano certamente di diventare dei “paria” anche per colpa di una recessione fortemente indotta dai “cattivi banchieri”, dopo essersi in molti casi già indebitati in “subprime” e aver poi perso la casa.
I banchieri centrali saranno giudici, imputati o testimoni se mai vi sarà una Norimberga della finanza? È ancora presto per dirlo. Certamente, vedere alle spalle di Obama nella sua prima conferenza stampa la mole severa dell’81enne Paul Volcker, l’ex capo della Fed che non ha mai considerato il dollaro alla stregua di un titolo quotato al Nyse, dice già molto.
Difficile che Ben Bernanke abbia la stessa libertà di manovra di prima e in ogni caso il successore di Harry Paulson (soprattutto se sarà il capo della Fed di New York, Timothy Geithner) sarà molto più una controparte che un alleato per la banca centrale americana.
Da un lato è chiaro che l’aver aperto le cateratte della liquidità è stata la riproposizione di un’arma anticrisi del passato, con esiti malcerti: così come quando nel ’92 la Banca d’Italia si mise a difendere la lira con le sue riserve contro la pressione dei mercati. Tenere gonfi di dollari “finti” il sistema creditizio e le Borse non funziona più: le banche per prime, spaventate dalla quantità di asset tossici in circolazione, non si prestano più al gioco. D’altro canto, una volta che la crisi finanziaria è diventata recessione economica il “gioco della liquidità” lo vorranno fare i Governi con le politiche di bilancio. E sarà davvero interessante vedere quale sarà lo sviluppo del “piano Paulson”: la prima tranche da 125 milioni di dollari è già stata dirottata verso l’intervento diretto – e senza precedenti – del Tesoro americano nelle 9 maggiori banche. Gli altri 575 milioni saranno davvero destinati a ripulire i bilanci bancari di attività in sofferenza? Obama deve attendere ancora due mesi abbondanti prima di insediarsi alla Casa Bianca ma ha già parlato di aiuti all’industria e sollievo fiscale per la classe media.
Chi è invece accusata di essere troppo rigida è la Bce: soprattutto dopo che la Bank of England ha tagliato il triplo (un terzo del suo tasso di riferimento in un colpo solo) e dopo che da Oltre Atlantico giungono solo notizie e preannunci di apertura di tutti i borsellini pubblici. Osservato che l’Inghilterra “pompa” liquidità soprattutto per sostenere le sue banche (più in difficoltà di quelle del Continente), è comprensibile che il mondo imprenditoriale, in modo particolare, prema su tutte le autorità pubbliche per ottenere sussidi e appoggi contro la caduta del ciclo.
È altrettanto pacifico che la forza dell’euro sul dollaro, da quando la crisi finanziaria è iniziata, ha penalizzato la competitività esterna dei prodotti europei, ridando forza all’eterno “partito della svalutazione”. Però è difficile accusare la Bce alla sua prima vera prova. L’obiettivo di Francoforte è fissato dal Trattato di Maastricht e risente di una paura per l’inflazione che è storicamente radicata in tutta Europa.
Quando il petrolio e le altre materie prime sono volate alle stelle, la Bce ha fatto niente di più e niente di meno di quanto le regole dell’Unione le chiedono: salvaguardare il valore dell’euro, cioè incorporare di volta in volta nell’euro gli effetti dei riequilibri dell’economia reale. Il caro-greggio è stato quasi certamente l’ultimo colpo di coda di Wall Sreet, disperatamente alla ricerca di guadagni speculativi a pronti, ma per mesi è stato reale e la Goldman Sachs nella tarda primavera prevedeva il barile a 200 dollari entro l’anno.
Accusare oggi la Bce di aver alzato i tassi per chiudere le frontiere all’inflazione è davvero poco corretto: Jean Claude Trichet avrebbe dovuto lui “accusare” i mercati di essere diventati una bisca? Il suo mestiere era e resta invece quello di prendere della realtà, senza ingannare gli “utenti” dell’euro sui trasferimenti di potere d’acquisto indotti da quello che è comunque stato un mini-choc energetico.
La Fed di Alan Greenspan, invece, al di là di additare a parole «l’esuberanza irrazionale dei mercati» non ha mai fatto alcunché per sgonfiare da subito tutte le bolle che, esplodendo, rischiano di fare più danno degli aerei suicidi dell’11 settembre.