Ora che anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha sdrammatizzato l’intervento pubblico in cantiere per il sistema bancario – non facendone quasi menzione in margine al G20 nell’annuncio-monstre del piano da 80 miliardi per l’Azienda Italia – è forse più agevole riflettere su obiettivi e strumenti aggiornati dell’originario decreto “salva-banche”.
La sua versione definitiva è attesa in settimana all’interno di un più ampio pacchetto anticrisi che prevedibilmente spazierà dall’alleggerimento fiscale per i redditi ai rilancio delle infrastrutture. E il decreto, quasi sicuramente, non sarà più volto a “salvare le banche”, ma ad aiutare le banche a sostenere le imprese e le famiglie italiane dalla recessione che rischia già di trasformarsi in depressione/deflazione.
La raffica di bilanci al 30 settembre, pubblicati negli ultimi giorni dalla maggiori banche italiane (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Bpm, Banco Popolare, Mps) ha infatti confermato le attese: la crisi ha colpito solidità, redditività e liquidità del sistema italiano, ma non ne ha distrutto pezzi né minato le fondamenta, com’è accaduto invece in molti casi di là e di qua dell’Atlantico.
Le Borse, d’altronde, si stanno assestando con volatilità mai vista prima, ma la fuga dei listini – mista a dinamiche speculative mai spente – sembra aver trovato primi approdi di stabilità. L’opinione pubblica sembra aver ormai razionalizzato il fatto che una banca il tuo titolo cade in Borsa non è di per sé una “banca fallita”.
Ci sarebbero dunque, in ipotesi estrema, le condizioni per togliere dall’ordine del giorno dell’emergenza la ricapitalizzazione delle grandi banche da parte del Tesoro: il quale – questa rubrica l’ha già notato – ha risorse limitate e priorità politico-economiche più stringenti rispetto a un intervento che sarebbe socialmente impopolare.
D’altronde le dichiarazioni dei grandi banchieri (tra questi il presidente della Popolare di Milano, Roberto Mazzotta, e l’amministratore delegato del Banco Popolare, Fabio Innocenzi) hanno tutte tenuto sul tavolo i benefici potenziali di un rafforzamento pubblico della base patrimoniale del sistema creditizio italiano, escludendone peraltro l’indispensabilità.
E il gruppo italiano più grande ed esposto alla crisi (UniCredit) oltre ad aver approvato in settimana il suo aumento di capitale totalmente privato da 6,6 miliardi, ha anche messo in cantiere un’impegnativa trasformazione del suo attivo in titoli utilizzabili per ottenere miliardi di euro di liquidità aggiuntiva presso la Bce. Una mossa, quella di Alessandro Profumo, che va sempre nella direzione del “far da sé”, senza gravare sui conti pubblici e senza d’altro canto vincolare di UniCredit agli oneri di rimborso (fino al 150% in caso di estinzione di un bond subordinato “perenne”), alle limitazioni strategiche e alle potenziali sanzioni manageriali che, ad esempio, il Governo inglese ha imposto alle grandi banche soccorse in extremis.
Le banche italiane (al pari di tutte le altre nella Ue) sono comunque chiamate al doppio compito di medicare le proprie ferite nel mentre si preoccupano dei problemi della propria clientela: le imprese (che chiedono capitali e cassa per creare valore aggiunto e occupazione) e le famiglie che risparmiano o gestiscono il proprio indebitamento, per la casa o per il consumo.
Su questi versanti le priorità restano due: riattivare i mercati interbancari, il cerchio più interno di una “comunità del credito” paralizzata dalla crisi; e contrastare il “credit crunch”, soprattutto sul terreno dell’investimento.
Le congiunture negative sono per definizione fasi di ristrutturazione per le imprese di tutte le dimensioni e settori: sono periodi densi di rischi ma anche ricchi di opportunità in tutti i mercati che vedono rimescolato peso esterno nell’economia e gerarchie competitive interne. Se il Governo indirizzerà direttamente dei mezzi per rivitalizzare questi circuiti come fare per non “perdere le tracce” di questi fondi? Come evitare che – com’è successo per molte recenti iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali – i soldi anticrisi restino chiusi nei cassetti dei banchieri timorosi di riprendere il loro lavoro quotidiano?
La chiamata in campo di soggetti come le Casse depositi e prestiti dei vari paesi europei oltre alla Banca europea degli investimenti forse indicano una strada anche al settore bancario privato. Il recupero della tradizionale funzione intermediaria da parte delle banche (laddove il mercato è in larghi comparti collassato) può rilanciare il ruolo degli istituti centrali di categoria, che non sono tutti diventati obsoleti dopo la progressiva assimilazione delle vecchie “categorie”.
L’Iccrea, l’istituto centrale delle banche di credito cooperativo, è ancora pienamente funzionante nel gestire l’interbancario interno al settore e i flussi verso l’esterno. Ma anche l’Istituto centrale delle banche popolari mantiene un’operatività sostanziale e pone una questione e una possibile ipotesi risolutiva. Perché all’eventuale aiuto pubblico dovrebbero di fatto poter accedere solo le grandi banche (ad esempio la Popolare di Milano, il Banco Popolare o Ubi banca, erede della Popolare Bergamo) e non altre decine di Popolari minori? E se il fine è quello di gestire un intervento di sistema a diretto supporto dell’attività creditizia, non sarebbe agevole utilizzare i canali e i monitor di un ente centrale?
In secondo luogo, laddove il coro di operatori e osservatori canta all’unisono il ritorno al banking tradizionale, forse non sarebbe inopportuno rispolverare anche i know-how del vecchio “credito industriale”, cosa molto diversa dal corporate banking & leasing che nell’ultimo decennio ha finanziato spesso solo la speculazione di Borsa o immobiliare. Molto di quel know-how era fino a non molto tempo fa custodito nei mediocrediti, in particolare in quello Lombardo (agganciato alla Carialo), oggi divenuto “Mediocredito italiano” all’interno di Intesa Sanpaolo. Ma anche l’istituto delle Popolari (Centrobanca) ha vantato una forte presenza nel finanziamento a medio e lungo termine della media impresa italiana.
Il ripensamento del modello di “banca universale” – sviluppato su scala Ue a partire dagli anni ’90 – richiederà certamente più di un Ecofin o di un G20. E il rischio dell’anacronismo è sempre in agguato. Ma la ri-regolazione attesa nel settore bancario potrebbe far riemergere ambiti di mercato bancario nei quali il sistema italiano potrebbe dire qualcosa subito. Se non addirittura proporsi attivamente come esempio.