«L’intervento pubblico nelle banche italiane sarà riservato agli istituti quotati», ha detto il presidente dell’Abi, Corrado Faissola ieri dopo l’Esecutivo dell’Abi. Un segnale ennesimo del braccio di ferro tuttora in corso tra il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il sistema creditizio che sta tuttora lavorando perché l’impatto dell’intervento sia minimo.
I timori dei banchieri sono noti e sono tre. Il primo è la possibile interferenza strutturale dello Stato – “CF2”alias “CF” della «politica» – in banche ormai da tempo solidamente privatizzate, anche se Tremonti continua a ripetere che il Tesoro non chiederà posti nei consigli d’amministrazione e non si coinvolgerà nella gestione.
Il secondo aspetto problematico è il costo dell’intervento: le banche potranno infatti offrire dei bond subordinati perpetui in sottoscrizione al Tesoro (o a un altro veicolo garantito dallo Stato, per esempio creato dalla Cassa Depositi e Prestiti). Ma il costo per le banche rischia di essere non meno alto del dividendo privilegiato del 10% concesso un mese fa dalla Goldman Sachs a Warren Buffett per una iniezione di capitale d’emergenza da 5 miliardi di dollari. Il tasso nominale annuo pagato al Tesoro su quei bond potrebbe essere dell’8,50%, ma quello effettivo salirebbe (si dice oltre il 10%) per le penali di rimborsi anticipato quasi sicuramente a carico delle banche che vorranno nuovamente de-statalizzarsi nell’arco di pochi anni. La necessaria certezza per lo Stato che il contribuente «non ci perderà» o addirittura «ci guadagnerà» nell’operazione di aiuto alle banche può del resto realizzarsi solo così (si parla di una clausola di disimpegno del 150% sul prestito erogato).
Il terzo e non ultimo nodo tuttora da sciogliere è molto delicato, soprattutto dopo che Tremonti ha detto senza mezzi termini che «i banchieri che sbagliano vanno a casa o in galera». L’intervento pubblico affermerà automaticamente che i presidenti, gli amministratori delegati, i consiglieri, i manager, devono dimettersi? Nessuno può dirlo fino a quando il decreto preciserà o meno – nero su bianco – l’applicabilità o meno delle norme della legge bancaria sul commissariamento.
Fatta questa lunga premessa, l’Abi ha implicitamente sottolineato che l’obiettivo dell’intervento pubblico torna a essere il sostegno alle quotazioni in Borsa dei titoli bancari, e non, com’era parso via via più evidente negli ultimi giorni, il supporto al credito alle imprese, invocato dalle associazioni dei produttori.
Le preoccupazioni, in ogni caso, restano tre due. La prima è la “par condicio” con i grandi gruppi francesi, inglesi, americani, olandesi, tedeschi oggetto di aiuto pubblico di vario genere: iniezione diretta o garanzia integrale dei depositi. Anche se gli analisti azionari e le agenzie di rating sull’affidabilità del debito sono sotto tiro, le regole del gioco in Borsa devono ancora cambiare e una banca più patrimonializzata o protetta da un debitore sovrano vale di più al listino e sopporta meno costi sui mercati dei capitali.
E se una banca vale di più in Borsa – secondo tema – è meno scalabile: o meglio, lo sarà di meno quando l’ondata di consolidamenti post-crisi inizierà (prima di quanto si possa immaginare).
Terzo e non ultimo motivo – tutto italiano – di puntare sulla ripatrimonializzazione pubblica delle banche è il sostegno a due categorie di investitori istituzionali: i fondi comuni (che contengono molto risparmio degli italiani, affidato a Sgr controllate dalle grandi banche) e soprattutto le 80 Fondazioni di origine bancaria. Queste ultime erogano ormai 1,5 miliardi all’anno di interventi in sussidiarietà (education, welfare, ricerca, valorizzazione arte e cultura, etc) quasi esclusivamente legate ai dividendi delle partecipazioni bancarie e all’asset management dei loro patrimoni.
Di più, le loro possibilità di reinvestire mezzi nella Cassa depositi e prestiti o nei fondi di sostegno alla casa o alla piccola impresa che Tremonti ha in cantiere sono direttamente legate alla forza dei loro patrimoni, che ai massimi di Borsa avevano superato i 70 miliardi e che i crolli hanno eroso in misura seria.
Ma servirà davvero l’intervento pubblico a sostenere o rilanciare i titoli bancari in Borsa? Difficile predirlo. Da un lato l’assenza di richieste allo sportello di liquidità d’emergenza della Banca d’Italia, nei giorni più drammatici della crisi, ha confermato il timore delle banche di “marchiarsi” come gruppi in difficoltà per il solo fatto di avvicinarsi alle provvidenze pubbliche.
In secondo luogo il costo elevato della provvista di alcuni miliardi di euro potrebbe riversarsi in maniera forte sui conti economici di banche già destinati ad assottogliarsi per la caduta dei mercati.
Infine gli investitori grandi e piccoli potrebbero prudentemente tenersi a distanza dei titoli del settore bancario-assicurativo per almeno un paio di trimestri: fino a che, comunque, i gruppi avranno esposto situazioni patrimoniali certe e ripulite da ogni attività “tossica”.
E alla trasparenza certo non contribuisce molto la decisione traumatica di sospendere la contabilizzazione “mark-to-market” ormai largamente adottata attraverso gli Ias, i nuovi principi contabili internazionali.