Il pacchetto anticrisi in arrivo a fine settimana segnerà prevedibilmente un riequilibrio non superficiale nei rapporti tra Tesoro e Banca d’Italia, le due maggiori authority dell’economia e dei mercati in Italia.

I due titolari, Giulio Tremonti e Mario Draghi, notoriamente si amano poco. La parabola politico-intellettuale del ministro – in senso anti-mercatista, da tempi non sospetti critico con gli eccessi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia – ha incrociato in termini sempre più conflittuali le tesi del Governatore, fedele alla sua storia di tecnocrate internazionale, di teorico e pratico delle privatizzazioni, di banchiere d’affari alla Goldman Sachs passato senza soluzione di continuità alla guida di una banca centrale del G-8.

Draghi, del resto, compare nella “foto di famiglia” del recentissimo G-22 sull’exit strategy dalla crisi in quanto presidente del Financial Stability Forum, il think-tank dei summit globali: non come l’“italiano” Tremonti, dunque, ma in veste di alta autorità tecnica sovrannazionale. Anche per questo il “regolamento di conti” attorno alle misure di sostegno all’economia – parecchio estese al delicato spartiacque credito-impresa – rappresenta più che un semplice momento di dialettica interna e una probabile svolta nella governance complessiva del sistema finanziario, non solo italiano.

Non più tardi di tre giorni fa, il neopresidente Usa Barack Obama ha del resto scelto Timothy Geithner, attuale capo della Fed di New York, come successore di Henry Paulson al Tesoro Usa: una figura dal cursus più simile a quello di Draghi, un profilo che ha prevalso non solo per la conoscenza diretta degli scottanti dossier della crisi di Wall Street, ma anche per un maggior pragmatismo in termini di cultura economica, certamente distante dal radicalismo anti-mercatista che avrebbe connotato un nome come quello di Larry Summers. E un guru non sospettabile di condiscendenza verso il capitalismo “duro e puro” collassato negli ultimi mesi – il Nobel Paul Samuelson – ha sottolineato che il peggior errore della nuova amministrazione democratica sarebbe adottare politiche economiche di pura contrapposizione “punitiva” ai gravi fallimenti degli otto anni di Gorge Bush.

Questo osservato, Tremonti non è un tecnocrate “centrista” ma non è neppure uno statalista keynesiano. Non è certo “da sinistra” che parte per criticare gli eccessi del mercato, ma semmai “da destra”, sospinto dalla piccola e media impresa che crede nell’aumento del Pil come crescita del valore aggiunto manifatturiero, di ricerca e sviluppo, di dinamismo nell’export. Che crede nel mercato ma non come sinonimo di speculazione finanziaria. Non è certo un esponente, Tremonti, di quella vastissima ed egemonica area di intellettualità economica che ha tuttora il suo nume tutelare in Carlo Azeglio Ciampi: ex presidente della Repubblica, ex premier, ex ministro del Tesoro ed ex Governatore della Banca d’Italia. Un “civil servant” che ha fatto da maestro anche a Draghi e che e neppure nel 2008 rinnega l’accordo del ’93 sulla concertazione: la formalizzazione dell’idea che in Italia (Europa) non può esserci “sviluppo ordinato” se non contrattato a un tavolo triangolare tra imprese (soprattutto le grandi e le ex monopoliste pubbliche rappresentate dalla Confindustria), i sindacati (soprattutto la Cgil) e lo Stato (soprattutto il Tesoro in veste di regolatore della spesa in deficit, della pressione fiscale, della vendita dei “gioielli pubblici”).

Su un altro versante strategico – quello bancario – il “ciampismo” riveduto e corretto nel “draghismo” a patire dal 2005 in Bankitalia – è sempre rimasto ispirato a una sostanziale sfiducia verso gli istituti nazionali: la privatizzazione e le fusioni avrebbero di fatto dovuto essere la premessa per l’assorbimento dei gruppi italiani i giganti europei, una volta che la moneta unica avesse integrato i mercati. Ora invece le grandi banche internazionali sono allo stesso tempo le vittime eccellenti e le imputate principali del “meltdown” della finanza globale: e se Paulson se ne va mestamente, soprattutto per la scarsa prova professionale data negli ultimi cento giorni, Draghi rimane un portavoce sospetto della convinzione che, per quanto grande, la crisi sia un “incidente di percorso”.

Nelle prossime ore, comunque, le visioni si confronteranno in modo diretto e la formulazione dello “stimolo economico” e dell’intervento stabilizzatore sulle banche misureranno anche il nuovo peso relativo dei due personaggi. È probabile che Tremonti enfatizzi la sua posizione di “neo-keynesiano di destra”: la spesa pubblica può, deve correre a dispetto dei parametri di Maastricht (l’ormai famoso vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil, oltre al rispetto stretto del tetto del 2% all’inflazione).

Se di per sé un simile atteggiamento è uno schiaffo tout court ai “tecnocrati” che Tremonti ha regolarmente attaccato anche dai palchi del Meeting di Rimini, si tratterà di vedere quanto risponderà ai richiami (più politici che economici) del premier Berlusconi e delle altre forze di Governo ad allargare i cordoni del bilancio più per sostenere i redditi delle famiglie e quindi i consumi, piuttosto che gli investimenti e quindi la ristrutturazione delle imprese.

Ma è altrettanto probabile che il ministro si riservi questo secondo “coté” all’interno del dossier bancario, con cui il confronto con Draghi è già duro, sotto traccia, da molte settimane. Da sempre critico verso le banche italiane, troppo vicine al predecessore Antonio Fazio, traumaticamente uscito di scena, Draghi si è ora convertito alla loro difesa nel momento in cui Tremonti ha messo sul tavolo l’ingresso dello Stato nei capitali dei maggiori istituti, tema di cui questa rubrica si è occupata più volte.

Il ritorno del “pubblico” nella proprietà delle grandi banche – anche se sotto forma di obbligazioni subordinate “perpetue” eventualmente rimborsabili in anticipo – è un attacco teorico e sostanziale all'”universo di Draghi”: va contro l’archetipo perfetto della banca come impresa profit oriented quotata in Borsa, che il Governatore mai respingerà a dispetto della drammatica catena di fallimenti da rincorsa di profitti e bonus; e andrebbe a ridimensionare nei fatti il suo ruolo di “banchiere dei banchieri”.

Però quella tra le grandi banche e il loro primo vigilante appare più una convergenza tattica che un effettivo “comune sentire” tra Draghi e i vari Bazoli, Geronzi, Profumo, ecc. Fino al punto che il Ceo di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, in un’intervista ha sposato le grandi linee di strategia economica del ministro dell’Economia.

Ma il vero “redde rationem” potrebbe arrivare su un passaggio solo apparentemente periferico: la nomina del nuovo vicedirettore generale della Banca d’Italia, al posto di Antonio Finocchiaro, prossimo alla pensione. Non è un ruolo da poco: Antonio Fazio divenne direttamente Governatore da vicedirettore generale “junior”. E Draghi sta entrando nel quarto degli otto anni del suo mandato a termine e non sarebbe sorprendente se al presidente del Fsf già prima del 2013 venisse riservato un incarico internazionale nelle super-unità di gestione della crisi che verranno prevedibilmente create a livello globale.

Sul successore di Finocchiaro il braccio di ferro tra Draghi (che non stravede per gli apparati interni della Banca d’Italia) e Tremonti sarà duro. E c’è già chi scommette su un nome di compromesso che però rappresenterebbe una “vittoria ai punti” di Tremonti: Roberto Ulissi, attuale direttore degli affari legali dell’Eni, un passato in banca d’Italia e poi allo stesso Tesoro, come direttore centrale vigilante sulla strategico comparto delle Fondazioni bancarie.