Il ritardo nell’emanazione del cosiddetto “decreto salvabanche-bis” non è di per sé un fatto preoccupante, anzi. Il piano Paulson negli Stati Uniti e il piano Brown in Gran Bretagna sono stati varati a tamburo battente perché in quei paesi le banche erano davvero sull’orlo del fallimento (o spesso già in bancarotta) e i rischi per la stabilità del sistema finanziario erano ai livelli di guardia: “di ordine pubblico” o “di sicurezza nazionale”.

In Italia – come questa nota settimanale ha già sottolineato – il sistema bancario è sotto pressione come ovunque in Europa, ma non più di altri: né sul fronte della liquidità, né su quello degli equilibri patrimoniali. Lo hanno ripetuto quasi all’unisono gli stati generali del credito, riuniti a Roma per la Giornata del risparmio: il Governatore Mario Draghi, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il presidente dell’Abi, Corrado Faissola, il leader delle Fondazioni Giuseppe Guzzetti.

Il possibile sostegno pubblico diretto alle banche italiane continua a guardare molto più alla ricostruzione della fiducia sui mercati creditizi che alla colmatura di effettivi “buchi patrimoniali”. Ha come indicatore d’emergenza la pressione speculativa delle Borse sui titoli delle grandi banche, non le code agli sportelli. E ha quindi come bussola l'”opzione francese”: i dieci miliardi o poco più iniettati dallo Stato in tutte le grandi banche – pubbliche e private – sotto forma di prestiti subordinati si sono tenuti intenzionalmente lontani dalla logica forzatamente nazionalizzatoria dei piani Brown e Paulson.

È quindi naturale che un intervento a marcata valenza politico-simbolica resti in discussione senza blitz, mano a mano che l’ondata di piena della crisi globale sembra recedere, alla vigilia del giro di boa delle presidenziali Usa.

Via via che i mercati ritrovano un minimo di stabilità (agevolati anche dalla sospensione internazionale dei principi contabili “mark-to-market” per i bilanci di banche e assicurazioni) il confronto politico-economico interno di un paese con forti vincoli di bilancio pubblico riprende quota: se le banche non stanno affondando che bisogno c’è di impiegare così risorse preziose? Poco conta che i fondi per sottoscrivere obbligazione bancarie sarebbero reperiti attraverso altri titoli di debito pubblico (o della Cassa depositi e prestiti): in questa fase recessiva ogni euro di deficit o debito dovrebbe essere indirizzato al sostegno delle imprese o delle famiglie. Studenti, insegnanti e genitori contestano duramente il decreto Gelmini essenzialmente come taglio a un welfare considerato ormai acquisito e per di più “a valore aggiunto” per lo sviluppo del Paese.

Resiste, è vero, la scuola di pensiero che vede l’intervento “alla francese” nelle banche come un servizio pubblico per cui varrebbe la pena di spendere: un benefit sociale ai cittadini scossi sulla sicurezza dei loro depositi bancari e sulla disponibilità di credito per le imprese.

Ma le organizzazioni imprenditoriali hanno già da settimane declinato la loro versione del sostegno pubblico al credito: la garanzia statale alle linee di finanziamento alle aziende. Il Governatore della Banca d’Italia, dal canto suo, è giustamente preoccupato – come molti colleghi – che liquidità e capitali pubblici messi comunque in circolo nel sistema bancario, restino poi inerti: finiscano in depositi delle banche presso la Bce, mentre il mercato interbancario resta paralizzato. La garanzia pubblica sarebbe meglio spesa per riattivare gli scambi tra banche?

Non sorprende che su questo sfondo Tremonti stesso abbia dato un colpo di freno («detenere azioni nelle banche nuoce alla salute politica») e che alla lancia spezzata dal presidente della Bpm, Roberto Mazzotta, si sia aggiunto solo un quasi-appello del Montepaschi di Siena: l’unico gruppo che, dopo l’acquisizione di AntonVeneta, abbia davvero il coefficiente patrimoniale “Core Tier 1” lontano da “quota 6”, più in basso di quello di UniCredit.

Ora dunque l’ingresso dello Stato nel patrimonio delle banche avverrà “su richiesta” delle singole banche, naturalmente sentita la Banca d’Italia come già previsto dal primo decreto. E lo strumento (obbligazione subordinata convertibile con diritto di prelazione per i vecchi soci e facoltà di rimborso anticipato) sembra sempre più circoscritto: come probabilmente gradito ai vertici della grandi banche (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Banco Popolare e Ubi Banca) e dalle Fondazioni loro grandi azioniste, nonché partner del Tesoro nella stessa Cassa depositi e prestiti.

È naturale che su questo tavolo si giochino partite di puro potere: anzitutto fra Draghi – culturalmente contrario a ogni retromarcia sul terreno della privatizzazione del sistema bancario – e Tremonti, politicamente sospinto dall’onda anti-mercatista e certamente desideroso di consolidare posizioni di influenza sullo scacchiere finanziario.

Mentre Berlusconi (azionista di Mediobanca) appare preoccupato di mantenere una posizione super-partes, i maggiori banchieri nazionali (in testa Giovanni Bazoli, grande elettore di Faissola) gestiscono una resistenza silenziosa ed elastica: non è detto che le scosse di assestamento del terremoto finanziario non provochino frane nei bilanci bancari. Però è chiaro che se riusciranno, eviteranno qualsiasi forma di intervento statale: e su questo crinale si sta saldando un “sentire comune” con Governatore, dopo una lunga freddezza iniziale seguita alla traumatica successione ad Antonio Fazio.