Se può valere il parallelo calcistico, il decreto anticrisi approvato dal Governo, di fatto senza novità sostanziali sul versante dell’intervento pubblico nel sistema creditizio, segna un punto conquistato in trasferta dalle banche sul campo (tutt’altro che amico) del Tesoro.
Naturalmente l’immagine sconta l’idea che le banche italiane (tacitamente appoggiate dalla Banca d’Italia del Governatore Mario Draghi) non vogliano affatto essere “salvate” dallo Stato e che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, insista invece nel vestire i panni del cavaliere bianco a tutti i costi e continui a bussare alle porte dei colossi bancari perché emettano obbligazioni subordinate perpetue e – di conseguenza – accolgano lo Stato come convitato di pietra, prevedibilmente intenzionato a non essere “dormiente”.
Il decretone del Consiglio dei Ministri, invece, non ha fatto altro che ricalcare la cornice del decreto originario, ribadendo un principio (lo Stato può, vuole, deve intervenire nelle banche eventualmente a rischio-solidità per tutelare il risparmio e il credito) ma senza aggiungere un solo dettaglio operativo. Restano in particolare indefinite le condizioni di remunerazione e di rimborso degli eventuali prestiti pubblici: in settimana il presidente dell’Abi, Corrado Faissola, alla presenza di Tremonti all’assemblea del Credito cooperativo, ha parlato senza mezzi termini di «ipotesi onerose e poco accattivanti». Il Tesoro continua a prospettare tassi alti (tra l’8,50 e il 10%, per di più con la dubbia deducibilità fiscale degli interessi) e penali di rimborso anticipato altrettanto elevate (il 150% se una banca vuole riallontanare il Tesoro dopo 5 anni) con l’argomento che le risorse pubbliche devono essere tutelate e il contribuente non può perderci nell’intervento pubblico.
Le banche, naturalmente resistono: sia quelle (come ad esempio il Monte dei Paschi di Siena) che non hanno fatto mistero di essere concretamente interessate all’appoggio pubblico; sia – soprattutto – quelle che pensano invece il peggio sia passato e che una relativa ristabilizzazione dei mercati permetta di superare la grande crisi senza l’ingresso ingombrante dello Stato.
Una tra le molte “carte coperte” di questa partita riguarda infatti la dimensione forzatamente collettiva dell’intervento aperto alle 10 maggiori banche quotate: proprio perché negoziate a Piazza Affari, se lo Stato entrasse in un istituto e non in un altro, l’asimmetria verrebbe subito registrata sia dai listini azionari sia dalle agenzie di rating. Non è un caso che il Governo francese (ora peraltro sotto il primo timido riflettore della Ue) abbia iniettato capitali in tutte le grandi banche, perfino in quelle non quotate. A Parigi, d’altronde, lo Stato ha finora tacitamente rispettato tutti i top manager: cosa che invece non è accaduta in Gran Bretagna, dove l’amministrazione Brown sta incalzando i “banchieri che hanno sbagliato” e dove un gigante come Barclays ha declinato l’offerta dell’aiuto pubblico ma sta sperimentando rosse difficoltà a ricapitalizzarsi sul mercato.
Come si comporterà Tremonti con i top manager bancari italiani? È un’altra “carta coperta” che rischia di restarlo, al di là di una quasi-minaccia del ministro: «I banchieri che falliscono vanno a casa o in galera».
Il decretone, peraltro, non è privo di tracce simboliche della tenacia del Tesoro: la previsione di osservatori sul credito presso le prefetture ha connotazioni dirigistiche forti, anche se per ora prive di contenuto. Anche la controversa fissazione di un tetto al 4% per i mutui a tasso variabile ha ben più valenza di “moral suasion” verso le banche a vantaggio della clientela che un effetto oggettivo sul mercato dei prestiti-casa.
È però ulteriore “fiato al collo” di Tremonti sul sistema bancario: perché “torni sulla retta via”, supportando cioè le famiglie e le imprese premute dalla crisi. Ma anche perché accettino l’ingresso dello Stato nei loro capitali e, in qualche forma, anche nei loro consigli d’amministrazione e qui la questione è certamente più delicata.