Domenica mattina chi tiene questa rubrica è uscito nel suo quartiere di Monza e ha trovato sui marciapiedi sotto casa un “farmer market” volante dalla Coldiretti lombarda: il primo in zona, sperimentale, con raccolta di firme (appoggiata dal Consiglio di quartiere) per la periodicità mensile. Erano in prevalenza piccoli produttori di formaggi e di salumi delle province di Milano e Bergamo, che hanno impiegato la loro giornata festiva – a loro spese – per promuovere direttamente i loro prodotti tipici dell’agroindustria locale. I prezzi non erano bassi, ma la qualità era elevata: l’esatto contrario della retorica del “nostrano”. Molti prodotti venivano promossi come sperimentali, frutto di ricerche recenti su miscele di latte e tecniche di stagionatura.
A chi chiedeva dell’esito dell’iniziativa, veniva risposto che questi “kilometro zero” sono per ora spesso in perdita, per di più contrastati da piccoli commercianti e grande distribuzione. Per non parlare dell’equivoco tra “prodotto locale” e “prodotto low cost”. Una mozzarella di provenienza cinese in un hard-discount costerà sempre meno – spesso molto meno – di una lombarda (o veneta, o pugliese, etc.), che ha però dalla sua due elementi: la qualità (intesa anche e soprattutto come controllo sanitario, ma non solo); e il sostegno all’occupazione e al reddito (quindi alla domanda di consumo e beni d’investimento, al risparmio e al tendenziale gettito fiscale) di imprese residenti in Lombardia (in Italia, in Europa).
È la “banalità” – solo apparente per i sostenitori, criticabile in quanto tale per i detrattori – degli appelli del premier Silvio Berlusconi quando chiede di “comprare italiano, comprare europeo”: si tratti di regali di Natale o di titoli di Stato. È l’essenza delle dottrine cosiddette “antimercatiste” che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti rilancia quotidianamente spesso a rischio di brutalità politico-intellettuale e con puntuale seguito di polemiche tra economisti. Però la crisi – cioè ormai la ristrutturazione dell’economia provocata dal collasso finanziario sistemico degenerato in recessione – ha il merito di rendere meno accademiche le dispute e più chiari gli scenari economici, più immediate le alternative politiche.
Nel caso specifico, i coldiretti della Lombardia non hanno atteso che il Governo (quello in carica, indipendentemente dal colore) votasse misure di sostegno temporaneo ai redditi con aumento della spesa pubblica e/o alleggerimenti fiscali e quindi con peggioramento tendenziale del deficit e del debito pubblico. Hanno scommesso su se stessi, facendo leva sul loro “vantaggio competitivo” (la qualità del prodotto e l’immagine commerciale accumulata in esso da decenni), assumendosi i rischi e gli oneri di organizzare un canale distributivo nuovo, mettendo sotto pressione quelli tradizionali: sia i piccoli negozi che gli ipermercati. Potranno riuscire o fallire: lo dirà il mercato, lo dirà il consumatore con i suoi redditi compressi, con il suo dilemma concreto se spendere mezzo euro in più o in meno per comprare la mozzarella cinese o il “primo sale” lombardo, con la sua predilezione crescente per il mega-centro commerciale, ma anche con la sua non sopita simpatia per la fiera di strada.
I gestori della grande distribuzione potranno fare lobbying contro i mercatini, ma è probabile che non tardino a reagire sul mercato: se il prodotto locale vende bene sul “kilometro zero”, disintermediando il supermercato, quest’ultimo potrà decidere di offrire prezzi migliori al produttore, oppure dichiarargli guerra totale, abbassando ancora i prezzi sull’import di qualità minore. Si vedrà. Intanto, i sindaci e i loro capi dell’opposizione, i presidenti di Regione e i loro futuri sfidanti, i ministri in carica e quelli ombra decideranno se guardare o no con favore i “mercati del contadino”: si vedrà alla prossime elezioni, la politica in democrazia è questo. I contadini, in caso di successo, decideranno loro se pagare le tasse o evaderle; se allargare la loro attività, se assumere nuovi addetti, se investire ancora in ricerca e sviluppo oppure se congelare i loro mezzi in immobili.
L’opinione pubblica, ancora una volta s’interrogherà: i coldiretti sono “camionisti cileni” pronti a paralizzano ferrovie e autostrade in difesa delle quote latte? Sono operatori di rendita, favoriti fiscalmente? O sono imprenditori capaci di far fare salti di “valore aggiunto” all’agroindustria di un paese, di essere made in Italy concreto? Le banche – italiane o no, grandi o piccole – stanno facendo i conti con i rischi aumentati, con l’interbancario inaridito di liquidità: dovranno decidere se finanziarie un gruppo internazionale fidandosi dei rating “tripla A”, ammesso che abbiano ancora affidabilità; o se tenere aperto il credito all’artigiano caseario lombardo. Il quale non ha rating, forse ha anche poche garanzie da offrire, ma chissà se fargli prestito è davvero più rischioso che acquistare titoli “tripla A” di Lehman Brothers. E poi il derivato dei Lehman, alla fine, finanziava l’acquisto della casa da parte di un americano, che, tra l’altro, forse non poteva permettersela ed è stato forzato dalla sua banca a indebitarsi. Ora quella banca americana spesso è già fallita, quell’americano ha perso la sua casa, la banca italiana scricchiola e il formaggiaio lombardo non ha credito. E se non sopravvive, andranno in crisi tutti: a cominciare dal fisco, anche quello federalista in cantiere.
Tutto quanto il vostro commentatore ha osservato e congetturato, in ogni caso, è stato un tentativo di risposta “di mercato” alla crisi: uno sforzo individuale, una ricerca di risorse imprenditoriali proprie, un rifiuto oggettivo di chiedere l’aiuto pubblico. È un quadro che, teoricamente, dovrebbe costituire il riferimento di commentatori cosiddetti liberisti: gli stessi che, invece, in queste stesse ore martellano il governo italiano e tutti i governati europei (soprattutto il cancelliere tedesco Angela Merkel) perché varino immediatamente “politiche di stimolo”: in concreto, perché, secondo una vecchia ricetta keynesiana, espandano velocemente la spesa pubblica e allentino il rigore di bilancio.
Sono gli stessi commentatori che per un quarto di secolo hanno sostenuto l’ideologia unica dello smantellamento dello Stato e delle sue deprecabili indiscipline economiche, lungo tre direttrici: privatizzazione, liberalizzazione, globalizzazione. E se Monti è divenuto commissario europeo all’Antitrust (prima di riconvertirsi negli ultimi mesi all’“economia sociale di mercato”) due tra i suoi più determinati continuatori – gli ultraliberisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina – hanno ultimamente concluso che “il liberismo è di sinistra”. Lo hanno ripetuto anche all’ultima puntata di “Annozero”, ospiti inediti di Michele Santoro, il quale dal canto suo è rimasto fedele a una visione bertinottiana dell’economia e della società: solo lo Stato può e deve sanare i guasti impliciti delle contraddizioni del capitalismo.
Se Santoro, probabilmente, si è divertito a duettare in casa sua con due intellettuali dell’establishment finanziario internazionale, assai più risentito è stato, quasi nelle stesse ore, il ministro delle Finanze tedesco, Peer Steinbruck, dopo un vertice tra il premier britannico Gordon Brown, il presidente francese Nicolas Sarkozy e il presidente della Ue Josè Manuel Barroso. Un summit platealmente organizzato per premere sul governo Merkel e aprire i rubinetti di banche centrali e governi europei come sta già facendo negli Usa l’amministrazione di transizione Bush-Obama. “Lascia senza fiato il voltafaccia di due decenni di politica economica supply-side al più rozzo keynesismo”. L’economia globale è in una crisi mai vista – dice Steinbruck – ma non sono gli economisti reaganiani-thatcheriani, ormai un po’ attempati, a impartirci la lezione, per di più in palese “falso ideologico” e senza neppure un simbolico atto di contrizione.
La politica keynesiana “alta” – è stato ricordato in questi giorni alla Cattolica nel centenario della nascita – in Italia l’ha fatta per primo Amintore Fanfani: i tratti principali dell’autostrada del Sole furono costruiti in quattro anni. Le dottrine pseudoliberiste hanno poi fatto vendere l’intera Società Autostrade – da monopolio pubblico a privato – a un’importante famiglia del capitalismo, che non ha promosso né diminuzioni tariffarie né investimenti e occupazione, ma ha provato semmai a rivenderla al gruppo spagnolo Abertis. La giustificazione di quella privatizzazione è stata il risanamento del bilancio statale italiano per favorire l’adesione dell’Italia all’euro. Alla moneta unica i paesi europei hanno creduto – Germania in testa – come a un nuovo piedistallo forte per le economie e le società del Vecchio Continente. E l’euro e la multiforme disciplina (liberista) che ha imposto all’Europa hanno retto alla prova meglio di quanto abbiano fatto il dollaro e l’Azienda-America, dove il liberismo turbofinanziario si è rivelato truccato: nei fatti economici e ora nelle scelte politiche, immediatamente riconvertite al salvataggio statale dei grandi produttori di auto.
Il coldiretto lombardo, verosimilmente, non si opporrà a misure di sollievo pubblico per il cassintegrato industriale: quello che fa da comparsa ad “Annozero” e a cui probabilmente la solidarietà dei cosiddetti-liberisti-un-po’-pentiti nuoce soltanto. Nel frattempo cerca invece di applicare il liberismo autentico – “sussidiario” – che stava nelle parole ormai troppo abusate di un’icona del centrosinistra globale, John Fitzgerald Kennedy: “Non chiederti quello che il tuo paese può fare per te, chiediti quello che tu puoi fare per il tuo paese”.