Questa serie di note su banche e Borsa si è occupata più volte della “confrontation” tra il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi: sempre cercando di andare oltre la presa d’atto di una rivalità tra grandi “ego” istituzionali, oggettiva quando due personaggi del calibro di Tremonti e Draghi si trovano a coabitare al vertice del Governo dell’economia provenendo da culture e carriere diverse.
Certo il carattere e i riflessi mediatici hanno la loro importanza: quando Draghi entra nella “foto di famiglia” del recente G-22 di Washington brillando della luce propria di presidente del Financial Stability Forum è ovvio che al ministro del Tesoro italiano non faccia piacere.
Ed è altrettanto comprensibile che quando Draghi giunge all’Ecofin di Parigi direttamente da un tour di quattro giorni in Asia ancora come leader del Fsf, Tremonti non si faccia sfuggire l’occasione di una punzecchiatura particolarmente dura: il Governatore, sembra dire il ministro, per chi lavora e a quali strategie?
Il Governo italiano (cioè lui in veste di plenipotenziario economico) è d’accordo con il suo Paese nell’essere deluso e arrabbiato con la globalizzazione finanziaria: quella che Draghi, invece, si affanna in fondo a difendere anche se in forma di «sforzo di ricostruzione». E qui l’“antimercatismo” di Tremonti (che ha la Lega come forza politica d’elezione) è qualcosa di più della tenzone accademica tra cervelloni dell’economia: è la riproposizione della diffidenza verso “il Governatore della Goldman Sachs”.
Un uomo, Draghi, che certamente Tremonti non avrebbe voluto in Via Nazionale dopo aver sanguinosamente combattuto il predecessore Antonio Fazio. Non è sicuramente la scuola “ciampiana” dei Draghi e dei Padoa Schioppa e tanto meno quella ultraliberista dei Giavazzi e degli Alesina quella di riferimento di Tremonti, che in Italia dialoga invece fittamente con economisti come Alberto Quadrio Curzio, il maestro della Cattolica (ora affacciatosi sulla prima pagina de Il Corriere della Sera) gran teorico dei distretti e del primato dell’impresa sulla finanza.
E sulle politiche di stimolo che Quardio Curzio, anche pochi giorni fa sia sul Corriere che su Il Sole 24 Ore, ha ricordato come Tremonti, per ora senza successo, sostiene che la Ue (o meglio la Uem) nel rispetto del rigore finanziario si deve dotare di strumenti forti di politica economica come quello dei bond comunitari; di una «politica industriale» che mobiliti fino al 3% del Pil di Eurolandia, cioè ben oltre 200 miliardi di euro.
Draghi come la pensa? Da Singapore ha ventilato la necessità di “nuove misure” per evitare che la recessione si trasformi in depressione, ma non è chiaro quale strada prediliga (se ad esempio il brutale “tasso zero” della politica monetaria della Fed, contrapposto al cauto gradualismo della Bce). Certamente non guarda con favore al progetto di “super-Bei” propugnato da Tremonti: Draghi è uomo strutturalmente vicino alle istituzioni internazionali di lingua inglese, Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale.
Questo premesso, il riaccendersi violento della polemica tra i due è presumibilmente radicato anche nel concreto della politica creditizia. E ha probabilmente alla sua origine anche il futuro immediato della Banca d’Italia, la legge sul risparmio del 2005 (quella che, di fatto, portò Draghi a Palazzo Koch) prevedeva che entro il 2008 la proprietà della Banca d’Italia passasse al Tesoro o a altri enti pubblici (si è a lungo parlato delle Fondazioni). Questo per togliere alle banche (che sono tuttora le grandi azioniste dell’istituto centrale) ogni potere di condizionamento sulla Vigilanza, per quanto teorico.
Ma le banche non hanno nessuna intenzione di vendere le partecipazioni a costo storico o di pagare molte imposte su valutazioni correnti comunque artificiali. E il Governatore – che come i precedenti è di fatto completamente indipendente e autorevole nella sua veste di vigilante – non può vedere con piacere un Tesoro tremontiano “proprietario” unico, anche se solo formalmente, della Banca d’Italia. L’ipotesi, per quanto ancora labioriosa, non appare irrealizzabile; soprattutto se dovesse miscelarsi con un altro grande dossier di politica bancaria, come quello degli aiuti pubblici al credito.
Un altro orizzonte che Draghi non gradisce: il Tesoro socio di tutte le grandi banche (anche se magari solo via bond subordinati) diminuirebbe fortemente il ruolo di supervisione di Via Nazionale sull’industria finanziaria nazionale. E se la resistenza tacita dell’Abi continua sotto l’occhio del Governatore, Tremonti potrebbe contro-proporre l’acquisto delle banche in Bankitalia per liberare i loro attivi di bilancio, all’interno di interventi comunque congegnati per sostenere il credito alle imprese.
Non da ultimo, in Bankitalia (questa rubrica ne ha già accennato) è tempo di nomine. Nelle prossime settimane è attesa la designazione di un nuovo vicedirettore generale al posto di Antonio Finocchiaro, che passerà alla guida della Covip. È improbabile che Draghi riesca a imporre a Tremonti il nome di un proprio funzionario generale: più facile che debba concordare con il Governo (cioè con il Tesoro) un nome ben conosciuto presso entrambi gli indirizzi, come Roberto Ulissi (oggi capo dei servizi legali dell’Eni) o Salvatore Rebecchini, ex presidente della Cassa Depositi e Prestiti.
I litigi pre-natalizi saranno stati appariscenti, ma rischiano di essere solo scaramucce preliminari. E Draghi è al giro di boa del primo mandato a termine e sta mostrando di non disdegnare affatto la prospettiva di un ulteriore salto professionale a livello internazionale.