Lo scontro attorno alla Banca d’Italia – protagonisti il Governatore Mario Draghi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti – prosegue con intensità crescente . Sui “media” i riflessi sono limitati, frammentari, diseguali:, com’è peraltro logico attendersi da un confronto duro e profondo nella struttura istituzionale, politica ed finanziaria del paese. Questa rubrica ne ha già trattato, ma forse l’operazione più utile, per interpretare ciò che sta avvenendo è riannodare il semplice filo degli eventi.

Giovedì 18 dicembre Tremonti – apparentemente a freddo – attacca Draghi, in quanto leader del Financial stability forum (organo informale del Fmi): autore di analisi «demenziali» secondo il ministro, nell’approccio alla crisi globale. Tremonti parla a Parigi, a margine di un appuntamento formale internazionale come l’Ecofin. Draghi prova ad  autodifendersi («L’Ecofin ha discusso i documenti Fsf») e trova una sponda tecnica nel  collega presidente della Bce, Jean Claude Trichet (idem: «L’Fsf ha fatto un buon lavoro»). In Italia, a caldo, si leva qualche (sommessa) critica giornalistica riguardo i toni e l’opportunità dell’uscita di Tremonti. Ma nessun commento giunge dal Governo o da  altre autorità. E  nessuno  prova ad obiettare nel merito alla questione posta dal ministro: l’efficacia nella supervisione finanziaria, in termini di previsione e gestione della crisi,  da parte elle grandi authority, dalla Fed alla Sec, dal Fondo monetario al suo “centro studi” Fsf, fino alle ban che centrali nazionali europee, che detengono ancora direttamente la vigilanza bancaria.

Sabato 20 dicembre indiscrezioni giornalistiche informano che Draghi ha nel frattempo convocato da alcuni giorni il Consiglio superiore della Banca d’Italia per nominare un nuovo vicedirettore generale. Si dà per scontato che sarà promosso un funzionario interno (si fa il nome del capo della Vigilanza, Anna Maria Tarantola, ma non in pole position). Nessun collegamento viene stabilito con l’incidente appena consumato: si accenna appena al fatto che Tremonti (che deve controfirmare la nomina di Draghi) non è stato coinvolto nella scelta, pur avendo in serbo le candidature di brillanti ex funzionari della Banca d’Italia poi passatoi al Tesoro (Roberto Ulissi e Salvatore Rebecchini) con esperienze significative di vigilanza finanziaria. Tremonti sta nel frattempo varando un complesso intervento di sostegno patrimoniale al sistema bancario e al credito alle imprese, che impegnerà ingenti risorse pubbliche in un momento difficile. Di più: a fine anno scade la delega triennale fissata nel 2005 per il passaggio dalle banche allo Stato (cioè al ministro) o ad altri enti pubblici, della proprietà della Banca d’Italia. La “legge sul risparmio” è stata fortemente voluta da Tremonti (allora ministro del Berlusconi III) al culmine del suo scontro con l’allora Governatore Antonio Fazio, ma anche da tutti gli economisti cosiddetti riformisti che su quella legge hanno lanciato a senso unico Draghi al vertice di Via Nazionale, pur avendo questi nel proprio curriculum un inusuale alto incarico alla Goldman Sachs. L’obiettivo – da tutti allora condiviso  – era rompere il potenziale conflitto d’interesse tra la banca centrale e gli istituti sia zionisti che vigilati.

Proprio il principe degli economisti “draghiani”, l’ultraliberista Francesco Giavazzi, firma lunedì 22 dicembre sul Corriere della Sera  un editoriale di lunga e totale perorazione della causa del Governatore: il vero rischio per i mercati, per il sistema bancario, per il risparmio delle famiglie e per il credito alle imprese – pur dopo il disastro globale – resta l’ombra lunga della  politica. Nella serata di lunedì il Consiglio superiore nomina la Tarantola vicedirettore generale. Martedì 23 le cronache – contenute e relegate nelle pagine interne – enfatizzano soprattutto la «quota rosa» finalmente assegnata da Draghi nel direttorio della Banca d’Italia. Il curriculum della neo-vicedirettore generale è quello di circostanza fornito da Palazzo Koch. Messun osservatore azzarda un bilancio dell’operato della dirigente cui Draghi ha affidato negli ultimi due anni la responsabilità quotidiana della vigilanza. Eppure la Tarantola ha gestito un’eredità complessa: quella della vigilanza dilaniata dai casi Popolare di Lodi-AntonVeneta e Unipol-Bnl. Ha affrontato casi impegnativi come la crisi di Banca Italease (primo canpanello d’allarme italiano che i derivati erano mine a orologeria), come le fusioni Intesa-Sanpaolo e UniCredit-Capitalia, come il doppio cambio di governance in Mediobanca, come le periodiche tensioni in Popolare di Milano. Fino agli ultimi mesi, con le banche italiane che crollavano in Borsa e alimentavano drammatici preallarmi sulla liquidità, mentre da Wall Strret o da altri paesi europei il bollettino fallimenti bancari a catena. Draghi ha evidentemente voluto premiare il presidio operativo interno della Banca d’Italia per un lavoro ritenuto ben fatto. Ma, per un motivo o per l’altro, nessuno lo dice, nessuno si accoda al grido di dolore di Giavazzi, anche se neppure lui si è speso in maniera diretta per il passaggio al vertice dirigenziale di Via Nazionale. Neppure lui ha avuto il coraggio di dire apertamente: la Tarantola stramerita la nomina, non è davvero il caso che Tremonti pensi di concertare una designazione importante per la ristrutturazione della vigilanza finanziaria interna e internazionale.

Con quest’aria, martedì 23, Draghi chiede e ottiene a tamburo battente un’udienza dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante istituzionale ultimo. Ma il Quirinale, più che registrare l’incontro -in chiave parecchio natalizia – non può: nessuna soddisfazione esplicita per la nomina in Direttorio. Tocca quindi alla stessa Tarantola – in un intervista comparsa mercoledì 24 sul Sole-24 Ore – commentare la propria nomina. Un compiacimento poco usuale, quello di un dipendente che di fatto ringrazia per la nomina il capo di quello che è pur sempre un ente pubblico. Non a caso, la chiacchierata vira sugli aspetti personali della vita di una donna-manager e affronta solo in termini stringati, generici e di circostanza le tematiche bollenti del sistema finanziario nazionale e del suo futuro. Lo stesso giorno, intanto, sul Corriere della Sera, il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia alza  la voce contro un sistema bancario che agli imprenditori pare del tutto inadeguato alla criticità della recessione. E lo scontro Tremonti-Draghi? Penultima risposta, ancora un breve e formale invito a evitare le polemiche, Un “no comment” che, ancora una volta, lascia sul tavolo le domande “tecniche” e “politiche” che Tremonti non si stanca di ripetere: la crisi poteva essere evitata? I banchieri centrali come Draghi (per di più responsabile di un osservatorio internazionale) hanno vigilato bene o no? E’ bene che l’autonomia della Banca d’Italia sia affidata a un ex top manager della Goldman Sachs come il ministro del Tesoro uscente negli Usa, Henry Paulson? Anche lo Stato italiano, con il via libera Ue, si accinge a sostenere le banche con 20 miliardi di euro e altre categorie di imprese con altre provvidenze: la Banca d’Italia è d’accordo o no? E se no, che idee ha sull’uscita dalla recessione e dalla crisi bancaria, al di là dell’evidente imbarazzo dei banchieri centrali come Draghi di fronte all’implosione del liberomercatismo? Da ultimo: la legge – la stessa che ha di fatto indicato Draghi a Governatore – dice che l’1 gennaio 2009 la Banca d’Italia dev’essere di proprietà pubblica. Perché il Governatore rifiuta sostanzialmente di discuterne? Sabato 27 dicembre sul Sole-24 Ore un editoriale del rettore della Bocconi, Guido Tabellini – vicinissimo sia a Draghi che a Giavazzi  – dopo una lunga serie di “caveat” sulla pubblcizzazione della Banca d’Italia, formula un  dubbio escamotage tecnico per mantenere lo status quo, sterilizzando il ruolo delle banche partecipanti  e disinnescando la “mina Tremonti”. No, il caso Bankitalia, è lontanissimo dall’essere chiuso.