Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, tiene pronto per la manovra anticipata in arrivo nei prossimi giorni un prelievo fiscale extra, si dice di almeno un paio di miliardi di euro. Il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, non perde occasione per chiedere più trasparenza nei bilanci (ancora non del tutto ripuliti da derivati e investimenti a rischio), più efficienza e qualità nei servizi, più concorrenza. La Borsa ma anche i soci stabili (tra cui le maggiori Fondazioni bancarie nazionali, da Cariplo al San Paolo a Mps) sono in ansia crescente: la spirale al ribasso tra utili, dividendi e corsi dei titolo sta facendo dimenticare quasi un decennio di rendimenti soddisfacenti, ma soprattutto di aspettative relativamente certe. Non da ultimo, le decine di milioni di italiani che vanno allo sportello chiedendo crescenti quantità di servizi di pagamento e di gestione del risparmio sono sempre più insoddisfatti e l’organizzazione del consumerismo finanziario preme ormai in misura diretta e non marginale sullo scacchiere politico: la convenzione Abi-Governo sul caro-mutui ha segnato un salto di qualità ma non è stata che un episodio di una spinta strutturale di medio periodo che traccia per il sistema creditizio un ennesima direttrice di un quadrivio, dal quale lo svincolo appare particolarmente complicato.
La pretesa di Tremonti di un gettito straordinario dai cosiddetti “extraprofitti” delle banche italiane è infatti radicato nel malcoltento dei clienti, ma il risultato potrebbe nascondere delle insidie: punite sul piano dell’immagine, “spremute” a favore del pubblico erario, le banche potrebbero reagire non abbassando il tariffario dei servizi o non investendo in efficienza e qualità. D’altro canto esse sono oggi pressocché tutte imprese private quotate in Borsa (a parte le banche di credito cooperativo) e anzi sono state le protagoniste di un quindicennio di privatizzazioni e concentrazioni, strategico per il sistema-Paese.
I top manager rispondono dunque essenzialmente ai loro azionisti in termini di creazione di valore: non solo i grandi investitori istituzionali (da cui peraltro dipende il più generale “giudizio del mercato” sull’Italia), ma anche le Fondazioni bancarie che sono il pilastro quasi unico della sussidiarietà, con oltre 1,7 miliardi di erogazioni all’anno.
Per di più le 81 fondazioni dell’Acri sono anche per il 30% padrone della Cassa depositi e prestiti, cassaforte di quote importanti di Eni, Enel, Terna e Poste e promotrici del Fondo 2I per lo sviluppo infrastrutturale. Aumentare – magari “una tantum” – la pressione fiscale sulle banche può dunque voler dire meno mezzi alle Fondazioni e tendenziale depressione dei valori di Borsa per titoli in portafoglio sia agli enti sia ai grandi gestori internazionali.
Ma non è tutto: l’intervento è allo studio in una fase estremamente difficile per il sistema finanziario internazionale che si va riprendendo dalla crisi dei mutui subprime e dei derivati. Una tempesta nella quale il sistema bancario italiano ha abbastanza limitato i danni, ma il cui conto finale non è ancora definito. E se nessun gruppo creditizio italiano è a rischio fallimento come l’americana Bear Stearns, o è stato costretto a chiedere il salvataggio pubblico come la britannica Northern Rock o ad accettare 15 miliardi di euro di mezzi freschi da grandi fondi sovrani asiatici come la svizzera Ubs, nessun bilancio è stato completamente immune da danni. I conti del primo trimestre di tutte le big italiane hanno accusato sensibili frenate nella redditività e non è certo che l’azione di svalutazione degli asset a rischio sia terminata. La Banca d’Italia, presumibilmente per non aprire subito controversie frontali col nuovo Governo Berlusconi, è finora rimasta in silenzio di fronte agli annunci di Tremonti. Ma è un dato oggettivo che l’operazione-trasparenza (con l’abbattimento integrale di tutti i rischi negli attivi) andrebbe ad abbassare gli imponibili e farebbe d’altronde emergere eventuali esigenze di rafforzamento patrimoniale. Per questo il secondo semestre del 2008 si presenta oltremodo incerto e insidioso per quelle che restano comunque le più numerose tra le “grandi aziende” del paese: uscire dal quadrivio segnato dalle pretese di tasse, di performance di Borsa, di solidità-stabilità e di qualità dei servizi e reputazione non sarà affatto facile.
(Foto: Imagoeconomica)