Come ha scritto Marco Onado su Il Sole 24 Ore, l’escalation giudiziaria scatenata dai magistrati di New York sulle sospette frodi su mutui subprime, è assieme una buona e una cattiva notizia. A quasi un anno dall’esplosione di una crisi finanziaria essenzialmente statunitense, la maggior economia di mercato del pianeta ritiene maturo il tempo di perseguire i presunti responsabili, una volta emersa l’estensione e la profondità della “falla sistemica”. La scadenza delle presidenziali americane e le fiammate inflazionistiche alimentate dal petrolio e dalle materie prime alimentari non fanno che legittimare il cambio di passo dei giudici e la loro volontà di segnare un’attenzione “civile” per le centinaia di migliaia di americani che hanno sottoscritto mutui “maligni” (malicious).

Nel mirino sono simbolicamente finiti a metà della scorsa settimana Ralph Cioffi e Matthew Tannin, due ex gestori di hedge fund di Bear Stearns. Quindi, nell’ordine: due manager di un veicolo d’investimento ad alto rischio e alto rendimento, cioè dei “pusher” di droga finanziaria nei mercati; poi: due dirigenti di una grande major di Wall Street fallita, che ha costretto la Fed a un salvataggio precipitoso, con fondi pubblici: l’esatto contrario del verbo liberista. Cioffi e Tannin, infine, sono due esponenti di quella non ristretta comunità di banchieri e altri professionisti dell’industria finanziaria che sembrano trarre invariabilmente vantaggi dalle crisi: sotto forma di bonus milionari di licenziamento o liquidazione, proprio in occasione di crack o ristrutturazioni.
L’Fbi – la polizia federale nata negli anni Venti per combattere la minaccia del crimine organizzato all’integrità dei mercati – ha alzato il velo sul suo lavoro: oltre 300 fermi e 400 indagati negli ultimi cento giorni. Ma ora la palla è in mano ai magistrati, per i quali la strada si presenta ardua, perché in gioco è la messa in discussione ideologica dell’assunto mercatista dell’ultimo quarto di secolo.

Sul mercato il rischio è la regola e il mezzo che conduce al profitto. La trasparenza e le tutele per il consumatore (piccolo risparmiatore o grande investitore) fanno parte del gioco, ma è concretamente arduo – soprattutto nel capitalismo anglosassone più ortodosso – invocare l’altrui violazione delle regole, oppure eccessi di azzardo morale da parte di un intermediario per giustificare perdite. Questo sarà il compito degli attorney di Brooklyn – e prevedibilmente di altri distretti giudiziari americani, ma non sarà affatto facile. La lobby di Wall Street è più potente di quella dei produttori di tabacco o di fucili: pubblicamente nemici del progresso civile, in realtà appoggiati da una “maggioranza silenziosa” – trasversale e interetnica negli States – che non è disposta a veder sovvertiti da magistrati o politici i principi liberisti in base ai quali di un contratto privato sono responsabili i due contraenti.

Ma la campana dei magistrati suona – non diversamente dall’Italia del ‘92 – per le istituzioni che dovrebbero vigilare in via ordinaria sullo svolgimento delle operazioni di mercato. Se i giudici si muovono a colpi di custodia cautelare vuol dire che a fallire è stata non solo un’impresa o un’istituzione pubblica, ma il sistema civile entro cui il mercato o la democrazia si sviluppano. Ed è chiaro che i giudici sono ancora meno attrezzati dei banchieri centrali ad arginare le “esuberanze irrazionali” dei mercati: possono forse sanzionare alcune frodi (poche rispetto a quelle complessive) a titolo esemplare. Ma non possono ricostruire in sistema di valori condivisi sui mercati globali.
Possono invece sancire in modo definitivo l’impotenza di istituzioni e authority di ogni genere nel fronteggiare la legge del più forte (o della giungla). E l’indebolimento delle dimensioni “sussidiarie” della finanza potrebbe comportare perdite collettive intangibili superiori a quelle monetarie individuali. Il secondo anno (o atto) della crisi subprime comincia così.