Appena la scorsa settimana abbiamo riflettuto a caldo – su ilsussidiario.net – sulla “retata di Wall Street” che ha aperto la fase giudiziaria della crisi dei mutui “subprime” negli Stati Uniti. Ci siamo chiesti quali reali prospettive abbia l’inchiesta “Mutui maligni” sferrata dall’Fbi per conto di numerosi procuratori federali, inizialmente contro 406 operatori finanziari di vari gruppi e Stati dell’Unione, i cui due più noti sono per ora due ex gestori di hedge fund della Bear Stearns, incorporata nella JPMorgan un attimo prima del sicuro fallimento. Abbiamo in ogni caso sottolineato la portata gigantesca di un’indagine che potrà certo essere circoscritta a singoli casi di frode, truffa o altro abuso di mercato, ma che chiama sul banco degli imputati praticamente l’intero “circo” della banche e delle Borse grandi e meno grandi: un’inchiesta che tende cioè a trovare un «reato» nelle applicazioni di alcuni dei principi portanti della rivoluzione finanziaria dell’ultimo quarto di secolo. E ciò senza considerare che il «reato» più grave, il sistema finanziario lo ha commesso creando instabilità generalizzata: mettendo cioè economicamente in crisi anche chi non si è indebitato a tasso variabile (finendo per non reggere più le rate); o chi ha sottoscritto titoli che – via “cartolarizzazione” – gli scaricavano per intero i rischi di quei mutui, di cui le banche si erano liberate in fretta. Il dato più eclatante di questa “epidemia finanziaria” – che i banchieri centrali a stento fronteggiano – è infatti la corsa inarrestabile del petrolio: un bene che il sistema finanziario sta “sequestrando” al consumo delle imprese e delle famiglie per poter continuare a svolgere speculazione che i mercati azionari e obbligazionari, deboli e spaventati, non consentono più.
Non sono comunque trascorsi che pochi giorni dalla “retata di Wall Street” che in Italia un magistrato inquirente ha formalmente indagato quattro banche straniere (Ubs, JPMorgan, Depfa e Deutsche Bank) per l’ipotesi di truffa aggravata ai danni del Comune di Milano riguardante finanziamenti strutturati per circa 1,7 miliardi di euro. Non si tratta di un caso sorprendente, né unico. Il bilancio del Comune di Roma, appena passato dall’amministrazione Veltroni a quella Alemanno, è al centro di violente polemiche per un presunto “buco” da 9 miliardi. Il Comune di Torino è intenzionato a vendere alcune importanti partecipazioni in aziende ex municipali per rifinanziare i suoi conti. Cause civili e inchieste giudiziarie (avviate a seguito anche di inchieste giornalistiche) sono ormai decine in tutto il Paese e la “mina” (o “bolla”) dei derivati di Comuni, Province, Regioni e altre amministrazioni locali ammonterebbe a 13 miliardi: un’incognita pesante sia per l’aggiustamento dei conti statali in corso da parte del nuovo Governo; sia, soprattutto, per l’attuazione del federalismo fiscale che è la priorità politica della Lega e che si basa su una più forte autonomia finanziaria decentrata. Ora la Procura di Milano ha quanto meno messo in luce che il secondo più grande Comune italiano (quello dove sono localizzate la Borsa, le più grandi banche nazionali e le grandi facoltà economiche), non è stato del tutto all’altezza di condurre la propria gestione finanziaria sedendo al tavolo con grandi operatori internazionali. Un po’ come i risparmiatori che hanno investito in azioni e obbligazioni Parmalat, che sono stati certamente raggirati (e il Pm di Milano Robledo ritiene che lo sia stato anche il Comune meneghino dal 2005 in poi), ma che certamente si sono assunti rischi non attentamente valutati. Con un’aggravante per i pubblici amministratori, che hanno impegnato “denaro degli altri” (cioè dei contribuenti locali), sottoponendo le finanze comunali a rischi forti per il futuro medio e lungo, in cambio (come spesso succede con i crediti strutturati) di benefici immediati per le casse dell’ente. E’ un reato, questo? Ed è un reato per le banche offrire la loro merce, cioè contratti sempre più sofisticati che – oggettivamente – consentono a chi li utilizza maggior flessibilità nel proprio bilancio in cambio di maggior volatilità nei costi ? Ancora una volta, sotto accusa è il mercato finanziario, cioè il luogo dove per definizione si intermedia “il denaro degli altri” – e non sarà facile dimostrarne i presunti illeciti: a meno di non provare che – come un contratto d’appalto – anche un finanziamento derivato (sotto forma di sovracommissioni) può essere il veicolo di “dazioni improprie”. Ma anche in questo caso il nodo andrebbe sciolto più in profondità: così come il risparmiatore privato ha provato sulla sua pelle cosa significa passare da un BoT a un’obbligazione argentina (a rendimento doppio o triplo, ma a concreto rischio default); gli enti locali hanno assaggiato l’enorme allargamento di opportunità offerto dalla finanza strutturata in confronto al “vecchio” mutuo presso la Cassa Depositi e Prestiti. Ma hanno altresì verificato il radicale mutamento di complessità gestionale e di rischio. E concludere che è tutto solo colpa dei “pirati” delle banche estere (peraltro accolti o addirittura chiamati in casa) è riduttivo: al di là di quello che sarà l’esito del lavoro della magistratura. Il ripensamento è appena cominciato e lo stesso federalismo richiederà un salto di qualità nell’approccio amministrativo: che non può certamente precludersi i mercati finanziari, ma che non può prescindere da una professionalità politica più avanzata.