Su Il Sole 24 Ore di venerdì 11 luglio, campeggiava un’ampia rassegna dei saldi di bilancio dei Comuni italiani (negativi in 1.079 casi tra cui Milano, Roma, Torino e Napoli) messi sotto ulteriore pressione da una stretta complessiva da 1,3 miliardi (al netto di altri tagli in cantiere) proveniente dalla manovra d’estate. Nelle successive pagine finanziarie si riferiva invece di una curiosa vicenda che sta infiammando la Borsa di Parigi e il Principato di Monaco, crocevia “offshore” per eccellenza: un fondo sovrano dell’emiro del Qatar (lo stesso che a Milano possiede da alcuni anni l’Hotel Gallia e che ha molto sponsorizzato a livello internazionale il sindaco Letizia Moratti nel progetto Expo 2015) ha lanciato un’offerta da 400 milioni di euro (non ostile, ma non concordata) sulla quota di controllo della Société des bains de mer. La Sbm, a dispetto dal nome ottocentesco e vacanziero, è una holding grande e molto particolare: è la vera “municipalizzata” del piccolo Stato monegasco. È di fatto controllata dai Grimaldi, famiglia regnante, e da altre istituzioni di una piccola entità sovrana, all’interno della quale i confini tra pubblico e privato sono molto elastici. Nel bilancio Sbm ci sono comunque asset strategici del minuscolo ritaglio a cavallo tra la Riviera di Ponente e la Costa Azzurra: cinque casinò, i quattro alberghi più lussuosi, 33 ristoranti, alcuni golf club, uno stabilimento termale. Fattura 450 milioni di euro e ci lavorano tremila persone.

La Sbm è stata fondata nel 1863 e Ranieri III, padre del principe Alberto, l’ha dovuta difendere più volte. L’assalto più clamoroso resta comunque quello condotto, negli anni Sessanta, dall’armatore e finanziare greco Aristotile Onassis, che aveva intuito tutte le potenzialità del mini-Stato in terra europea, mentre le finanze del Principato e quelle personali di Ranieri erano in acque basse. A Montecarlo sono via via affluiti super-ricchi di ogni nazionalità e professione – dagli sportivi ai petrolieri – tutti attratti da una legislazione fiscale e bancaria molto flessibile, oltreché dal clima esclusivo di grande stazione turistica internazionale. Sono approdate decine di banche e finanziarie (formalmente sotto vigilanza antiriciclaggio), ma nessuno ha mai seriamente tentato di togliere al Principato e al suo capo il controllo di una più che simbolica infrastruttura turistico-urbanistica. Ora invece un sovrano simile ad Alberto – ma molto più ricco – gli chiede di sedersi allo stesso tavolo in Sbm.

La prima risposta del board della società (di cui è stato presidente in passato il banchiere italiano Enrico Braggiotti, già alla guida della Comit) è stata negativa, ma non sono state alzate barricate. I Grimaldi e il Principato non sono indebitati, ma un’offerta per cassa a prezzo d’amatore (la Sbm è quotata a Parigi e il prezzo è subito schizzato) non si rifiuta a cuor leggero. E poi le dimensioni dei fondi sovrani del Golfo (gli stessi che stanno salvando grandi banche americane in crisi) sono gigantesche: hanno investito finora nel mondo 63 miliardi di dollari. Un’alleanza ben gestita – una specie di joint venture tra sovrani e Stati – potrebbe porre il Principato ancora di più al centro di grandi affari.

Si vedrà. Intanto, appena al di qua del confine di Ventimiglia, alcuni sindaci di grandi città italiane stanno trascorrendo un’estate di lavoro su dossier che non sono poi così diversi da quello sul tavolo del principe di Monaco. La differenza sostanziale è che il bilancio dei loro enti piange: il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino (oggi di fatto il più importante “governante” del Pd nel paese) ne ha parlato apertamente in una recente intervista. Il capoluogo piemontese ha rispettato il patto di stabilità interno 2007, ma accusa un saldo rilevante negativo elevato (337 milioni) e ora i tagli della pre-Finanziaria del ministro Giulio Tremonti impongono un ulteriore aggiustamento da 180 milioni. Per di più il debito (2,9 miliardi, definito comunque sotto controllo con rating soddisfacente dall’agenzia Fitch) è tra quelli che incorporano un rischio (al momento teorico) legato ad alcuni finanziamenti contratti con strumenti derivati. Non stupisce certo che il sindaco accenni apertamente, in questi giorni, alla necessità di dismettere alcuni “gioielli” ancora in cassaforte alla municipalità. Il più importante è la quota di controllo in Iride, l’utility costituita due anni fa con la fusione tra l’Aem Torino e la genovese Amga. Iride – una delle utility-leader in Italia assieme ad A2A, Acea ed Hera – è quotata in Borsa e il complesso delle partecipazioni di controllo torinesi, a valore grezzo di mercato, supera i 500 milioni di euro. Ma sarebbe probabilmente superiore se il Comune indicesse un’asta e non sarebbe assolutamente sorprendente veder spuntare, tra molte candidature all’acquisto, anche il medesimo fondo sovrano del Qatar così interessato alla Sbm. Invece Iride è attualmente al centro di un complicato progetto di fusione con le emiliane Hera ed Enia, per dar vita a una super-utility interregionale: forse da aprire a un partner industriale europeo, forse in attesa di passi successivi nella costruzione in Italia, a lato di Eni ed Enel, di un gigante energetico “federale” come la tedesca E.on. Ma il progetto non decolla (i Comuni di Torino, Bologna, Genova, Modena litigano sulla governance) e le Borse cedenti non aiutano un accordo sui concambi di fusione. Anche perché – e ritorniamo al punto – i Comuni hanno bisogno di denaro fresco (non solo a Torino: a Roma il nuovo sindaco Gianni Alemanno si ritrova proprietario dell’Acea, ma è alle prese con un presunto “buco” superiore a 7 miliardi di euro).

Ora a Torino Chiamparino ha prospettato il parcheggio della quota Iride presso la Compagnia San Paolo, la maggiore fondazione bancaria italiana assieme alla Cariplo. La Compagnia (che ha ancora immobilizzato metà dei suoi 9 miliardi di euro di patrimonio nel 7% di Intesa-San Paolo) potrebbe investire parte dei suoi capitali liberi in azioni Iride: ma a quale prezzo? Il presidente della Compagnia (che è formalmente un ente di diritto privato) è nominato dal sindaco: il che aiuterebbe a mantenere un’influenza gestionale del Comune sulla società, ma non è la condizione più agevole per gestire grandi operazioni su titoli quotati in Borsa. In ogni caso il dossier è esemplare dei nodi politico-finanziari del difficile “progress” concreto del federalismo nel Paese. Alcuni grandi Comuni italiani detengono asset che, se messi sul mercato, farebbero sicuramente gola a molti investitori esteri, resi più dinamici dalle turbolenze finanziarie. Ma rischiano di perder sicuramente il controllo di antichi snodi di potere politico-economico locale, sia in termini di “poltrone” e dipendenti, sia di possibilità di intervenire sulla fornitura di servizi di base (in primis energetici) ai cittadini. D’altro canto l’indirizzo politico generale sulle utility finora delineato ricalca quello già seguito negli anni Novanta dalle banche: privatizzazione, liberalizzazione, concentrazione, internazionalizzazione. L’intento è quello (non sempre realizzato) di favorire così il miglioramento dei servizi e l’abbassamento del loro costo. Comuni, Province e Regioni incasserebbero comunque sicuramente mezzi ingenti, utili a risanare i loro bilanci e/o ad avviare iniziative di servizio pubblico in altri settori. Senza contare un effetto potenzialmente benefico sul piano civile, di ridimensionamento della cosidetta “casta”, oggi ancora salda nelle utilities ex municipali. L’unica certezza è che sia il Principe che il Sindaco, quest’estate avranno poco tempo per le vacanze.

(Foto: Imagoeconomica)