Il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, è tornato a chiedere più trasparenza agli intermediari dei mercati finanziari in crisi, associandosi però con più forza al collega della Fed, Ben Bernanke nel sollecitare più poteri per le authority di vigilanza, e in primis per le banche centrali. In sé, quest’ultimo appello è tutt’altro che scontato sulle labbra di Draghi. Il numero uno di Via Nazionale ha costruito l’intero suo “cursus” di economista, tecnocrate di Governo, banchiere privato e infine centrale sull’ortodossia libero-mercatista, secondo la quale la concorrenza è alla fine di gran lunga miglior vigile di qualsiasi authority e consente di volta in volta che la moneta buona scacci quella cattiva a vantaggio di tutti (e così per mele o telefonini, imprenditori e manager). Da ultimo, l’arrivo stesso di Draghi al vertice Bankitalia, poco più di tre anni fa, è stato additato da molti come esemplare di come il mercato, se necessario, possa liberarsi anche di un banchiere centrale “cattivo” com’era diventato per molti Antonio Fazio. Il quale, guarda caso, incarnava invece il primato dell’authority sul mercato, una sfiducia intrinseca nelle capacità di quest’ultimo di autoregolarsi e una preoccupazione strutturale di creare istituzioni forti e procedure articolate per controllare passo passo gli operatori ai fini di garantire la stabilità del sistema.



Il “super-burocrate” Fazio è stato d’altronde traumaticamente estromesso (ed è ancora in attesa di eventuale rinvio a giudizio penale) perché sospettato di aver abusato della sua discrezionalità autocratica per favorire alcuni operatori scorretti e pericolosi, come l’allora Banca Popolare di Lodi. E il suo successore non ha mai perso occasione per promuovere una visione opposta: basti pensare al piano (peraltro pochissimo realizzato) di snellire la Banca d’Italia; o l’enfasi continua sullo sviluppo di una “sana” governance societaria in banche e imprese: perché è solo nel gioco di pesi e contrappesi interni al mercato (fondi comuni attivi in assemblea, amministratori indipendenti nei consigli, ecc.) che la finanza globale, secondo Draghi, può diventare auto-sostenibile. Da almeno 12 mesi, ormai, la credibilità immediata di questo approccio è tuttavia quasi azzerata. Le perdite accumulate da grandi banche e grandi investitori – riversate quindi su risparmiatori, mutuatari, contribuenti e imprese, anche sotto forma di razionamento del credito – sono ormai stimate in dieci volte i 150 miliardi di dollari inizialmente paventati dalla Fed nell’agosto 2007. E i comportamenti di “azzardo morale” – in molti casi sconfinati nell’illecito vero e proprio – non si contano ormai più sulle due sponde dell’Atlantico, dove grandi banche sono fallite o quasi e i magistrati sono entrati in azione in forze.

In questo scenario anche due liberisti convinti come Bernanke e Draghi (che è anche leader del Financial Stability Forum, organo consultivo del G8) si devono quindi arrendere: anche se è tutta da valutare nei suoi sviluppi incogniti quest’affannosa retromarcia sul ruolo delle banche centrali. Per questo è forse più interessante, più traccia di “pensiero positivo” nelle ultime esternazioni del Governatore italiano, l’associazione tra il pressing sulla trasparenza degli intermediari e l’opportunità di ripristinare i poteri delle authority (che però nel frattempo si sono moltiplicate e mescolate nelle competenze). Ammettere che le banche, lasciate da sole, rappresentano alla fine un pericolo per se stesse, ma ribadire nel contempo che nessuna authority finanziaria può vigilare efficacemente su alcunché se nella “comunità finanziaria” non c’è condivisione di standard via via più elevati di trasparenza, significa né più né meno che calare il “principio di sussidiarietà” nel turbine dei mercati. Vuol dire affrontare la durezza della crisi rifiutando visioni manichee, ideologiche, retrospettive. Così come la bancarotta del welfare pubblico non ha segnato la fine del capitalismo democratico “temperato” in Europa, ma ha aperto nuove vie nella produzione di “beni civili” spesso aggiornati, così la crisi dei subprime (più americana) e dei derivati (più europea) non è detto segni l’apocalisse della finanza cosiddetta “di mercato” e l’avvento impetuoso e totale della finanza “sovrana” di matrice islamica, asiatica, ex sovietica. Certo questi nuovi player porteranno, oltre a nuovi mezzi, “nuovi modi”: ma difficilmente la “nuova Fed” o una Bce fatta crescere nelle sue funzioni potranno essere eguali alle banche centrali nazionali del XX secolo. Difficilmente toglieranno d’impaccio le banche stesse, gli investitori, le imprese dal dovere di autosorvegliarsi meglio, mentre cadrebbero in una tentazione imperdonabile i supervisori grandi e piccoli (perfino quelli generati dai mercati, come le agenzie di rating) se puntassero a controllare tutto, se si arrogassero potere a fronte della pretesa di garantire ciò che è buono e ciò che è cattivo sui mercati.

Il risparmiatore, l’imprenditore, il manager, dal canto loro, d’ora in poi saranno meno credibili se continueranno ad agitare la bacchetta magica della finanza per una moltiplicazione dei pani e dei pesci che, finora, è raccontata in modo autentico solo dal Vangelo. Confondendo quasi sempre la sussidiarietà con la solidarietà, il capitalismo di mercato (in particolare quello finanziario) non ha pressoché mai avuto la pazienza di sperimentare se essa funziona: non per condannare un quarto di secolo di crescita dell’economia all’insegna della privatizzazione, della concorrenza, della globalizzazione; ma per evitare che il prossimo quarto di secolo si concluda altrettanto bruscamente.
(Foto: Imagoeconomica)

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