Come il “lodo Alfano”, il caso delle intercettazioni private di Silvio Berlusconi e fors’anche l’inchiesta sugli spionaggi illegali dei security manager Telecom, la “guerra del duale” scoppiata negli ultimi giorni attorno a Mediobanca appare lontanissima dagli interessi, dai problemi quotidiani, dalle stesse conoscenze del cittadino, alle prese con difficoltà più urgenti: il reddito, l’occupazione, la sicurezza, la qualità dei servizi di base. Per di più, a differenza di tre anni fa, i “giochi di potere” della politica e della finanza non riservano neppure quegli scampoli di divertimento regalati agli italiani in vacanza (qualche volta un po’ troppo in chiave di “panem e circenses”) dalle telefonate intercettate a qualche immobiliarista più pittoresco e pasticcione che dedito al malaffare
Questo premesso, è vero solo in parte che la disputa sul modello di governo societario delle grandi aziende – e delle grandi banche in particolare – riguardi solo pochi potenti e non i milioni di attori dell’economia che lavorano attorno e consti soltanto di rarefatte disquisizioni giuridiche.

Proviamo a ridurre la questione all’osso. La riforma Vietti del diritto societario (2006), aderendo alla normativa Ue, ha introdotto in Italia la possibilità di articolare gli organi di controllo di una società per azioni su due livelli, secondo un modello tedesco-europeo: nel “consiglio di sorveglianza” siedono i rappresentanti degli azionisti (in Germania storicamente anche dei lavoratori) e si limitano all’alta supervisione strategica e non si occupano più della gestione. Questa è affidata in via autonoma a manager professionali del consiglio di gestione, i quali si occupano quindi in modo chiaro ed esclusivo degli interessi dell’impresa, non dei suoi proprietari.
Viene naturalmente lasciato in vita il modello tradizionale “monistico”, in cui peraltro da almeno un ventennio, da quando anche l’Italia è entrata nella finanza di mercato, si registrano anomalie legate al fatto che i consiglieri d’amministrazione sono in concreto quasi sempre rappresentanti degli azionisti e controllano direttamente le scelte dei manager.

Il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, come direttore generale del Tesoro ha varato nel 1998 il testo unico della finanza, la cui logica è quella di affermare la governance anglosassone pura: a Wall Street, in particolare, le grandi corporation sono guidate da uno o più top manager e nei board compaiono semmai amministratori non esecutivi e indipendenti con un ruolo di bilanciamento e di controllo. Il mercato, poi, è sovrano, nelle assemblee, nei lanci di Opa, nel decretare l’avvicendamento di un vertice se utili e valore del titolo crollano.

In Italia il duale è stato utilizzato immediatamente da quattro grandi banche nell’ultima tornata di fusioni: Intesa-San Paolo, Popolare Verona-Popolare Italiana, Ubi-Banca Lombarda e Mediobanca in quanto riassetto derivato dalla fusione UniCredit Capitalia (che ha mantenuto il monistico).
Draghi ha lamentato che il duale in banca sia servito in realtà solo a moltiplicare le poltrone necessarie ad accontentare tutti i personaggi di vertice implicati nelle fusioni e non abbia in realtà perseguito l’obiettivo di separare le funzioni alla guida di imprese delicatissime come le banche. Le istruzioni di vigilanza sul duale emanate lo scorso marzo sono state particolarmente rigide: non tanto contro il modello in sé, quanto sull’applicazione e sul fatto che figure di grandi leader bancari (come Cesare Geronzi, Giovanni Bazoli o Carlo Fratta Pasini) insediatasi ai vertici dei consigli di sorveglianza, non avessero rispettato i limiti di ruolo impliciti nel nuovo modello.

La Banca d’Italia di Draghi, insomma, sia che si trattasse di grandi Popolari, sia di colossi europei come Intesa, sia di blasonatissimi centri di potere come Mediobanca, è parso coerentemente intenzionato a far leva sul duale per accelerare un cambiamento epocale nella finanza italiana. È oggettivo che personaggi come Geronzi (il quale si è mosso per primo) e Bazoli (il quale invece per ora non ha dato cenni di ripensamento) si siano ritrovati stretti nei panni di “presidenti sorveglianti” e anche nell’ultimo riassetto Telecom (il cui controllo è oggi condiviso tra Mediobanca-Generali e Intesa) sono stati loro a tirare le fila: ad esempio nella nomina di Franco Bernabè ad amministratore delegato. E se Mediobanca è quotidianamente l’azionista-pivot di realtà come Generali e “Corriere della Sera”, Intesa è in questi giorni “advisor-salvatore” di Alitalia. Possono questi dossier-paese essere affidati solo ai manager (Alberto Nagel in Mediobanca, Alessandro Profumo in UniCredit, Corrado Passera in Intesa, ecc.)?

La sortita di Geronzi – che già in settimana vorrebbe rimettere in cantiere il rapido ritorno alla governance monistica in Mediobanca – è parsa a tutti gli osservatori tendenzialmente conservatrice e restauratoria: ma d’altronde era stato lo stesso Governatore a manifestare freddezza verso il duale. La partita, oltre a essere apertissima e a confermare il clima torrido di ogni estate della finanza italiana, è ancora aperta e riguarda sia le regole di medio-lungo periodo che il riequilibrio concreto immediato delle forze sullo scacchiere bancario italiano. Ed è davvero difficile formulare un giudizio compiuto, soprattutto in attesa che gli eventi si dipanino: lo schematismo “capitalismo di mercato/non di mercato” – spesso brandito come spada per tagliare qualsiasi nodo di Gordio – non è di questi tempi molto popolare. E d’altronde il vento della politica – quella ispirata alla finanza “antiglobalizzatoria” di Giulio Tremonti e quella che attiva corpose iniziative come possono essere quelle di un premier-imprenditore come Berlusconi – soffia a favore di un banchiere contiguo alla politica come Geronzi; e del Professore bresciano, teorico della “banca di interesse nazionale”.
Draghi, d’altronde, difficilmente tornerà indietro dai suoi convincimenti su ciò che è buono e ciò che non lo è nelle società e in Borsa, anche se la prova della crisi dei subprime è dura e prolungata.
(Foto: Imagoeconomica)