Un mese fa il sasso in piccionaia è stato lanciato da Roberto Capezzuoli, l’esperto di materie prime de Il Sole 24 Ore. In una giornata di ordinaria follia sul mercato petrolifero – già a inizio giugno sulla soglia dei 140 dollari al barile – al Nymex erano stati scambiati un miliardo di barili-carta (cioè contratti sull’acquisto di petrolio fisico) nelle stesse ore in cui i pozzi di tutto il mondo pompavano non più di 85 milioni di barili reali: meno di un decimo del “greggio delle Borse”. Il giornalista cominciava a dar voce in Italia a un dibattito già cresciuto vivacemente tra gli osservatori internazionali, mano a mano che l’“oro nero” batteva record su record e che le preoccupazioni di centinaia di milioni di consumatori diventavano panico, rovesciandosi su Governi e altre authority internazionali. In quel frenetico 7 giugno, in particolare, alla Borsa merci di New York il petrolio era balzato di 10 dollari in un solo colpo, provocando per la prima volta dopo 17 anni la sospensione automatica delle contrattazioni.
Non è passato un mese e il ministro dell’Economia italiano, Giulio Tremonti, ha chiesto formalmente alla Ue un’iniziativa politica comune contro quella «speculazione», che, a suo parere, dopo aver “appestato” mutui e titoli d’investimento nei bilanci finanziari delle famiglie, avrebbe ora contagiato le materie prime alimentari ed energetiche. Il teorema è chiaro: un club di grandi investitori e intermediari manipolerebbe i mercati e, dopo aver bruciati i risparmi di centinaia di milioni di cittadini, li colpirebbe ora di nuovo senza pietà, sequestrando beni vitali come petrolio o cereali per alimentare i propri guadagni finanziari. Avendo “chiuso per disastro e ristrutturazione” i mercati azionari e obbligazionari, le grandi banche avrebbero deciso di “cambiar tavolo al casinò”, puntando su altre merci “giocabili” in Borse organizzate.
Gli avversari di Tremonti – politici o intellettuali – ne hanno ovviamente approfittato per rinfocolare l’accusa di «populismo finanziario», dopo la svolta anti-mercatista con cui il giurista lombardo si è ripresentato per la quarta volta alla guida del ministero dell’Economia nel Berlusconi III. Tra gli altri, Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera e Giacomo Vaciago su Il Sole 24 Ore hanno opposto una diversa interpretazione della corsa inarrestabile delle materie prime. Nessuna oscura “mano invisibile”, nessun complotto di speculatori: solo «effetto Cindia», solo «sana» inflazione da domanda. Sono i paesi emergenti (ormai sempre più emersi e sempre più numerosi) che stanno esercitando una pressione reale sul mercato, economie che si sono sedute al tavolo delle sviluppo e da un lato devono alimentare consumi industriali e privati di energia e dall’altro (a differenza del passato) dispongono di tutti i dollari necessari per pagarli.
L’offerta – nonostante le pressione sui paesi Opec e le loro aperture – resta rigida: e poi perché un altro grande fornitore come l’oligarchia russa – già capace di ricattare un vicino come l’Ucraina per il gas – dovrebbe mostrarsi più conciliante con l’Occidente? Non è un caso che il presidente di Gazprom, Alexei Miller, prometta il barile a 250 dollari, e non è neppure sorprendente che il caudillo venezuelano Chavez, dica di “accontentarsi” di 100, pur di accreditare il suo ambiguo terzomondismo del XXI secolo.
Resta il fatto – secondo il teorici della “non speculazione” – che l’Occidente (Italia forse in testa) starebbero facendo i conti con un rivolgimento degli equilibri socio-economici planetari forse più sconvolgente di quello portato dalle pressioni dell’Islam: cui, può sembrare un paradosso, gli Stati Uniti hanno reagito fin dalla prima guerra del Golfo, essenzialmente per proteggere i quattro quinti delle riserve petrolifere mondiali custodite nell’Asia musulmana. Ma – a differenza del primo shock petrolifero degli anni ’70 – il petrolio è diventato raro e costoso non per l’iniziativa politica di leader arabi obbligati per ragioni diverse a usare un’arma economica contro l’Occidente filo-israeliano: è invece il mercato. E, nella visione “realista” dell’inflazione, il mercato dice agli occidentali che avranno pure dei «nemici» nei fondamentalisti terroristi di al-Qaida, ma che hanno dei «concorrenti» più numerosi, più organizzati, più agguerriti, in quei miliardi di loro simili che – dall’India al Vientnam, dalla Cina al Brasile e perfino all’Africa neo-colonizzata dai cinesi – si sono iscritti alla civiltà del capitalismo tecnologico e di mercato. Sarebbero quindi inutili polemiche e crociate contro una speculazione inesistente: avrebbe invece unico senso uno sforzo obbligato di ammodernamento delle economie e di mantenimento dei vantaggi competitivi accumulati via via. In ultima analisi: imprenditori, tecnici, insegnanti, ricercatori, amministratori pubblici dovrebbero tutti rimboccarsi le maniche per rilanciare la produttività e il valore aggiunto delle rispettive Aziende-paese o dell’Azienda-Europa e dell’Azienda-America. Dove dodici mesi fa la tempesta del subprime – che oggi sembra già storia – era un primissimo venticello.