All’inizio dell’agosto 2007, una grande banca d’affari come la Morgan Stanley non pensava certo a consigliare ai suoi clienti l’investimento in titoli di debito di “microfinanza”. Chi avrebbe preferito, un anno fa, puntare un dollaro su una banca impegnata a finanziare i “campesinos” sudamericani o una cooperativa di vedove-ricamatrici del Bangladesh? Giusto cose da Nobel per la Pace come Muhammad Yunus, in ogni caso l’esatto della finanza di mercato, che – almeno fino a un anno fa – voleva rating a doppia o tripla A, rendimenti elevati e apparente liquidità immediata di “securities” trattabili su circuiti telematici su scala planetaria e in tempo reale.



Dodici mesi dopo i mercati hanno scoperto che oltre 1.000 miliardi di dollari di quei titoli erano in realtà carta straccia e spesso una truffa. Che il merito di credito assegnato da Moody’s, Fitch o Standard e Poor’s ai “veicoli” contenenti pacchi di mutui subprime o altri investimenti mobiliari ad alto rischio era quanto meno discutibile. Che la redditività promessa o attesa era alta perché aleatoria o addirittura finta. E che al momento di smobilizzare quegli asset i pur giganteschi mercati globali non rispondevano neppure in minima parte a investitori disposti ad accollarsi perdite anche consistenti.

Ecco allora una della “vacche sacre” di Wall Street pubblicare uno studio approfondito su “L’ascesa della microfinanza come utile investimento alternativo”, con un suggerimento finale lapidario come quelli dati centinaia per azioni ed obbligazioni: «Riteniamo che l’investimento di debito in microfinanza offra un profilo di rischio-rendimento molto attraente, consentendo simultaneamente all’investitore di adottare una strategia socialmente responsabile, votata alla lotta alla povertà».



La conclusione malcela l’imbarazzo di una grande banca “capitalista” a decantare i punti di forza delle piccole banche – in gran parte mutue e cooperative di ultima generazione – nate per ovviare all’usura o – più forbitamente – a quel “credit crunch” strutturale che esclude in permanenza chi non ha da offrire in garanzia nulla se non la propria intraprendenza, la propria capacità di lavoro, la propria onestà, unite a una grande voglia di riscatto.

Ma tant’è e Morgan Stanley fa certamente di necessità virtù quando tenta disperatamente – al pari di altri suoi concorrenti sopravvissuti alla crisi – di far dimenticare a mercati già duramente colpiti alcuni dei “vitelli d’oro” degli ultimi anni: i derivati, l’immobiliare, le Opa, le Ipo tecnologiche.



Clienti azzoppati nei loro portafogli, pentiti di aver puntato a rendimenti eccessivi, inferociti contro banche e broker inaffidabili alla prova dei fatti potrebbero effettivamente trovare appetibile comprare obbligazioni emesse da una “microbanca”.

Oggi il sistema del microcredito – sottolinea MS – muove circa 25 miliardi di dollari e serve poco meno di 100 milioni di persone altrimenti escluse da ogni servizio finanziario.
Nei prossimi dieci anni la stima è che la microfinanza sussidiaria possa decuplicare le sue dimensioni e il mercato potenziale sfiorare i tre miliardi di individui.

Del resto, sottolineano i tre economisti autori dello studio, la correlazione tra la rischiosità dei portafogli delle microbanche i cicli economici e finanziari (misurati su orizzonti che ormai superano i trent’anni) si rivela statisticamente molto contenuta.

Sull’altro versante, le tecniche gestionali di intermediari cresciuti con l’obiettivo strategico di fare microcredito in contesti socioeconomici molto arretrati si sono affinate abbastanza in fretta. E ora perfino le enormi, secolari e blasonate banche statunitensi non trovano di meglio che convogliare verso di loro una parte dei loro investimenti, in fuga dai (finora cosiddetti) mercati finanziari.

(Foto: Ansa)