Le grandi manovre d’agosto – tradizione non scritta e in parte leggenda metropolitana della finanza italiana – si stanno svolgendo quest’anno su un piano molto mediatico-culturale: almeno per ora.
Il dibattito sulla “dottrina Bazoli” in campo bancario è entrato nel vivo a cavallo di Ferragosto e sostituisce da solo – in apparenza – le arroventate cronache estive dell’ultimo triennio: le scalate dei “furbetti” ad AntonVeneta, Bnl e Rcs (2005); la fusione Intesa-Sanpaolo, seguita a ruota da numerose altre (2006); l’esplosione globale della crisi dei mutui (2007).
E sì che i principi della “banca responsabile”, aperta agli “interessi generali” (nel caso anche “nazionali”) dell’economia, pilastro di un “capitalismo temperato” (“sussidiario”?), erede della prima “economia sociale di mercato” europea non è una novità in assoluto. Il Professore bresciano l’aveva già esposta in termini teorici in tempi non sospetti e in un’occasione al solito non banale: nel marzo 2007 (cioè prima dell’escalation di crack e polemiche nella finanza di mercato), alla presentazione di una volume sulla storia del Mediocredito lombardo, pilastro del corporate banking nel primo boom economico nel Nord tra pubblico e privato, simbolo di un’economia strettamente collegata con la società e il territorio. Né il presidente di Intesa-Sanpaolo – a differenza del collega di Mediobanca, Cesare Geronzi – si è espresso in viva voce attraverso un’intervista: ha invece autorizzato la pubblicazione su Il Corriere della Sera di un articolo predisposto per l’ultimo numero di Atlantide (e commentato su ilsussidiario.net); e quindi su Il Sole 24 Ore di una relazione preparata per una sessione dell’Aspen Institute Italia, think tank bipartizan guidato dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
Due interventi da professore, capo d’impresa e intellettuale pubblico per ribadire – alla luce degli ultimi fatti ma non solo – che una banca che punti unicamente al profitto trimestrale, a qualsiasi costo o rischio, si rivela alla fine dannosa per se stessa e per l’intera economia circostante. Che l’epoca degli utili stratosferici realizzati gonfiando bolle finanziarie sui mercati e spesso incassati dai banchieri stessi è finita o meglio: è bene che finisca in fretta. Infine: una banca – come quelle italiane – che intermedia ancora i risparmi e i capitali di chi abita in un’area non può certo abbandonare le buone pratiche di mercato nell’assegnare il credito, ma non può neppure rimanere cieca, sorda e quindi muta e inerte di fronte a situazioni critiche dell’economia di quell’area.
Le reazioni non si sono fatte attendere e in quella più netta – siglata da Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera – è subito riemerso il nome più dolente nell’attualità dei rapporti banca-impresa: Alitalia, di cui Intesa-Sanpaolo è capofila in pectore di un discusso salvataggio, per il quale peraltro si è fatta avanti anche la Mediobanca di Geronzi. Meno scontati i “nomi e cognomi” che hanno punteggiato altre repliche: l’ex direttore del Corriere, Piero Ostellino, ha dato atto alle banche – e a Bazoli personalmente – di aver risollevato le sorti della Rcs dalla bancarotta in cui l’aveva trascinata la P2; Marco Onado su Il Sole 24 Ore ha rammentato i disastri dei banchi meridionali (Napoli e Sicilia) dopo decenni di «politica straordinaria per il Mezzogiorno».
Nella penna di molti commentatori sono rimasti però casi più altisonanti: la Fiat, anzitutto, che deve certamente il suo turn around a Sergio Marchionne, ma anche al fatto che sei banche italiane hanno rinunciato nel 2002 a tre miliardi di euro di crediti, senza poi far valere il peso nella proprietà acquisito grazie alle obbligazioni convertite in azioni. Ma anche un altro grande “campione nazionale” ha vissuto un decennio tormentato quasi ininterrottamente “allo sportello”: Telecom. Sono state le banche – più che la famiglia Agnelli – a creare il nocciolino duro che consentì al Tesoro di privatizzare interamente la società nel ’97. Sono state le grandi banche americane (appoggiate da Mediobanca) a finanziare l’Opa di Roberto Colaninno nel ’99, salutata come un’esemplare vittoria del mercato ma fonte dei 43 miliardi di debito che ancora zavorrano il gruppo. Sono state UniCredit e Intesa ad affiancare Marco Tronchetti Provera e Gilberto Benetton nel quinquennio successivo e sono oggi Intesa e Mediobanca (con Generali) a far da contrappeso (al momento al costo di consistenti svalutazioni nelle partecipazioni) al partner spagnolo Telefonica e alle sue ambizioni. E che dire di Autostrade, altro gioiello ex pubblico consegnato alla famiglia Benetton, coi Moratti, oggi di fatto il più importante alfiere del capitalismo privato? Privatizzata grazie all’aiuto delle banche, la società è stata oggetto di un’Opa totalitaria da parte della nuova holding privata, nel cui azionariato spiccavano banche e Fondazioni.
L’elenco e la memorialistica potrebbero continuare. Ma tanto già basta per comprendere come la posizione di Bazoli fotografi con realismo un sistema economico ancora molto bancocentrico, in un sistema in cui storicamente pubblico e privato, istituzioni e mercato si confrontano in modo serrato.
E se il Professore richiama la responsabilità ultima del banchiere nel valutare anche l’interesse generale dell’economia, non lo fa certo per ampliare una pretesa egemonia creditizia sul Paese. Lo fa, semmai, per ribadire che la finanza (come probabilmente anche il mondo dell’informazione) è un business “meno uguale” e più speciale di altri.