I mercati e i governatori centrali trattengono il fiato ogni giorno in attesa del prossimo fallimento bancario annunciato negli Stati Uniti; o se si preferisce, del prossimo salvataggio tramite liquidità pubblica (che però non può essere infinita) o grazie ai raid più o meno amichevoli dei fondi sovrani arabi o asiatici (che però sono sempre più cauti e quindi più duri nel dettare le condizioni, come ha dimostrato anche l’ultimo no di investitori cinesi e sudcoreani a soccorrere la Lehman Brothers).

Ma neppure in questo difficilissimo agosto 2008 – nel mezzo di una crisi finanziaria «mai vista prima» ha detto il capo della Fed, Ben Bernanke – è venuto meno il pressing nei confronti delle Popolari italiane: che per ora hanno retto lo tsunami dei subprime e dei derivati, ma che forse proprio per questo restano nel mirino di quanti vorrebbero ridimensionarne in fretta la “diversità” del panorama disastrato degli intermediari.

Le voci improvvisamente propagatesi in Borsa su una fusione allo studio tra Ubi Banca (nata dalla concentrazione tra Banca Popolare di Bergamo e Banca Lombarda) e Banco Popolare (che ha aggregato via via alla Verona la Novara e la problematica Popolare di Lodi) sono state smentite con forza dagli interessati: sullo sfondo della possibile nascita di un super-polo, che sarebbe il terzo del Paese, vi sarebbe infatti sicuramente l’abbandono “tout court” del passaggio al modello di società per azioni e l’abbandono della natura societaria cooperativa che caratterizza tuttora sia Ubi che il Banco.

La struttura – imperniata sul limite di possesso azionario e di delega in assemblea, nonché dal voto “per testa” e non per possesso – è da anni sotto processo sia in Borsa (dove le Popolari sono via via approdate ma non sono scalabili o acquistabili tramite Opa); sia presso l’Unione Europea (che vorrebbe restringere l’identità cooperativa solo alle piccole banche no profit); sia ultimamente presso la Banca d’Italia.

Il Governatore Mario Draghi ama notoriamente poco le Popolari non solo perché vede nel loro sistema un residuo “non concorrenziale”, ma anche perché la loro governance appare troppo lontana dal sistema di controllo degli azionisti sul management che connota le banche spa quotate in Borsa. Da questa posizione critica, in particolare, è nato l’ennesimo ultimatum della Vigilanza alla Popolare di Milano.

L’istituto – che ha oltre centomila soci – è in realtà da sempre controllato da alcune migliaia di dipendenti, articolati in modo abbastanza rigido secondo le sigle sindacali. L’accesso al consiglio d’amministrazione è stato aperto anche ad azionisti non dipendenti, ma la sostanza dell’autocontrollo (peraltro in parte inscritto nelle tradizione cooperativa) non è cambiata. Così la Milano è rimasta per ora fuori da tutti i progetti di aggregazione e crescita strategica che ha invece variamente interessato il resto del settore, che tuttora conta per oltre un sesto del mercato bancario italiano.

Ultimamente sono andati a vuoto sia un tentativo di fusione alla pari con la Popolare dell’Emilia Romagna (altra residua “zitella” assieme alla Vicenza, alla Sondrio e al Credito Valtellinese), sia un’ipotesi di asse internazionale con il polo francese Crédit Mutuel, fortemente sponsorizzato dal presidente Roberto Mazzotta. Un banchiere, l’ex ministro e presidente della Cariplo, che certamente non può essere sospettato di volontà di “svendere” la banca o di rotture brusche con la filosofia di credito al territorio. Eppure anche il presidente della Bpm si è trovato nel mezzo del fuoco incrociato tra le linee più oltranziste dei dipendenti-soci e la “suasion” ultimativa della Banca d’Italia, decisa a utilizzare il “caso Milano” per accelerare in modo esemplare l’evoluzione della governance delle Popolari italiane in senso mercatista.

Il tentativo di riforma mediata dello statuto della Popolare milanese – che si deve concludere entro la prima decina di settembre – e la gestione strategica di future alleanze e future aggregazioni da parte delle grandi Popolari si presenta quindi come cruciale: non solo per il settore, ma anche per le economie territoriali e “di distretto” che da sempre vi orbitano attorno. Senza una serie di voti veramente “capitari” – cioè “di testa” – le Popolari rischiano paradossalmente di vedersi infliggere colpi mortali proprio quando avversari e concorrenti sui mercati finanziari sono essi in molti casi mortalmente deboli.