Continua a rimanere raro – anche nel ventunesimo secolo – che due banchieri come Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli escano dal riserbo mediatico consueto della loro professione. I presidenti dei consiglio di sorveglianza di Mediobanca e Intesa Sanpaolo lo hanno fatto nell’arco di quarantott’ore: Geronzi con una lunga conversazione con il direttore del Sole-24 Ore, Ferruccio de Bortoli; Bazoli attraverso la pubblicazione sul Corriere della Sera di una lunga riflessione autobiografica preparata appositamente per Atlantide – rivista della Fondazione per la Sussidiarietà che edita IlSussidiario.net – in vista del Meeting di Rimini. Entrambi – direbbero gli analisti della City, “outspeaking”: assolutamente privi di ambiguità, anzi molto decisi nell’affermare in prima persona il loro ruolo “qui e ora”, agli incroci tra poteri politici ed economici in Italia, e in passaggi importanti per i rispettivi istituti. Una doppia uscita così incisiva, oltreché autorevole, è una rappresentazione plastica di un peso personale e istituzionale: un “duumvirato” (più che “duopolio”) bancario (anzi: “bancocentrico”), che nel dibattito sulla struttura del capitalismo italiano è puntuale oggetto di critica e di appelli alla modernizzazione verso modelli “di mercato”. Non ultimo – due giorni prima dell’intervista di Geronzi – quello di Francesco Giavazzi sulle stesse colonne del Corriere. L’economista della Bocconi – ma formatosi al Mit con Franco Modigliani – ha formulato un ultimo invito perché l’ipotesi di cambiamento della governance “duale” in Mediobanca non avvenisse come atto di forza da parte di Geronzi sui manager dell’istituto, al fine di avocare a sé ogni potere nella strategia e nella gestione della più importante banca d’affari del paese (in particolare della partecipazioni in Generali, Rcs e Telecom). Giavazzi in astratto ha richiamato il “tipo ideale” della banca quotata – amministrata da manager professionali con l’obiettivo di creare profitti e aumenti di valore in Borsa durevoli a vantaggio di tutti gli azionisti – e ha paventato il rischio che il ritorno dell’influenza di un presidente-banchiere e degli azionisti stabili sospingesse Mediobanca verso una gestione meno trasparente e dunque meno efficiente. Come simbolo di una presunta restaurazione – evidentemente malvista da un mercatista ultraortodosso come Giavazzi – era preso il possibile rientro di Mediobanca nel tentativo di salvataggio e ristrutturazione di Alitalia: da parte del Governo Berlusconi, che ha come attuale advisor Intesa Sanpaolo. Dopo aver incassato il sì del patto di sindacato e del consiglio di sorveglianza di Mediobanca al ritorno a una governance “monistica”, Geronzi ha riposto però nella sostanza alle questioni sollevate da Giavazzi a nome di una robusta pattuglia di scettici e critici. Ha ribadito – in termini ai limiti della rudezza – che in una banca (in un qualsiasi impresa quotata) gli azionisti (soprattutto quelli con partecipazioni più consistenti e quindi delegati dall’assemblea negli organi di vertice) hanno l’ultima parola e che i manager – per quanto cruciali – non hanno autonomia illimitata propria. Che, quindi, la contrapposizione tra manager per definizione “tecnici buoni” e azionisti, altrettanto per definizione portatori di “cattivi” conflitti d’interesse e teorica: forse ai limiti dell’ideologia. E non solo in Italia: è così in tutto il mondo, ha tagliato corto il banchiere. Di qui, in concreto, l’idea ventilata da Geronzi – già nelle vesti di nuovo “presidente unico, che Mediobanca, possa rientrare nel turnaround Alitalia. Una merchant come Mediobanca (ma più in generale una grande banca) non può restare lontano dal centro dei grandi affari del paese. Da ultimo, giudicando positivamente l’operato iniziale del Governo Berlusconi e soprattutto del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ha abbastanza esplicitamente detto che una grande banca deve avere un rapporto con chi guida la politica del paese. L’approccio va ovviamente in dialettica frontale con la “dottrina Draghi”, che aveva criticato l’adozione “all’italiana” del duale nelle grandi banche: senza l’effettiva realizzazione dei fini del nuovo modello di governance, cioè la separazione netta tra proprietà (consiglio di sorveglianza) e management (consiglio di gestione). Il Governatore della Banca d’Italia, autore del Testo unico della finanza, resta convinto della validità del modello anglosassone, in cui sono i manager i veri numeri uno e vengono controllati dal mercato, e attorniati soprattutto di amministratori indipendenti, capaci di tutelare tutti gli azionisti con la loro esperienza. E per quanto anche Draghi provenga dalle fila della Goldman Sachs (la grande banca d’affari americana dal cui vertice proviene l’attuale ministro del Tesoro americano, Harry Paulson) resta scontata nella sua visione la totale autonomia dei mercati finanziari dalla politica: semmai, il primato dei mercati su ogni forma di controllo politico- istituzionale che vada oltre l’attività di fissazione delle “regole del gioco”. Il Governatore, infine, già grande tecnocrate delle privatizzazioni italiane, è ancora impegnato nell’abbattimento delle ultime frange dello Stato nella proprietà delle imprese, in particolare se queste imprese sono banche. Sicuramente meno conflittuale con Draghi, almeno in superficie, Bazoli su Atlantide tratteggia invece, sulla sua trentennale esperienza, l’identikit di un banchiere “solo” soprattutto nelle responsabilità ultime. Queste sono in definitiva quelle di equilibrare sempre le molteplici richieste, pressioni, sollecitazioni che si scaricano inevitabilmente su un’impresa tutta speciale come una banca. Il credito, letteralmente, è “fiducia” – a maggior ragione nell’ottica cristiana che ha costruito da subito la gerarchia di valori del Professore bresciano. La banca non può essere quindi “una macchina di produzione di denaro a mezzo di denaro”, ma uno snodo prezioso di crescita dell’intera economia. Ed è un pericolo costante il fatto che la banca, al centro di mercati quotidianamente inondati di migliaia di miliardi di dollari o euro, diventi un luogo di astronomici guadagni puramente finanziari, cioè speculativi: e questo vale sia per le aziende che per le persone. Il sapere morale alla fine è l’unica salvezza di fronte alle incertezze sull’uso corretto del sapere professionale. E in questo Bazoli, che ha un background di giurista e uomo di cultura certamente diversa da Geronzi (che ha fatto il dirigente bancario prima in Banca d’Italia poi alla Banca di Roma-Capitalia) ritrova sul suo percorso la presa di posizione di Geronzi sul primato degli azionisti e dei presidenti. E se (almeno per ora) Intesa-Sanpaolo non ha intenzione di modificare la sua governance duale, è concretamente tangibile l’equilibrio – e spesso la convergenza – che contraddistinguono le relazioni tra i due banchieri e le istituzioni che rappresentano. Bazoli – che è stato a lungo vicino a Romano Prodi e ai cattolici popolari ed è più lontano di Geronzi dalle posizioni di Berlusconi e Tremonti – è stato però il primo a coniare la categoria della “banca al servizio del paese”: la stessa che vuole (prepotentemente) tornare a essere Mediobanca.