«Non è tempo di mettersi a discutere, è tempo di agire».È stato sbrigativo il presidente degli Stati Uniti, George Bush, annunciando venerdì 19 settembre il maxi-piano di salvataggio predisposto dal Tesoro dopo la catena di allarmi, fallimenti e nazionalizzazioni più o meno improvvisate che ha fatto deflagrare la crisi bancaria Wall Street.

Se lo è potuto permettere (ma non è che una magra consolazione) un inquilino uscente della Casa Bianca: non sarà infatti Bush a dover gestire tutti i rischi e le difficoltà dello sgombero delle “macerie tossiche” di questo autentico 11 settembre dell’economia americana. Non sarà lui a verificare se il piano federale da 700 miliardi di dollari (già paragonato in eccesso al costo della Seconda guerra mondiale o dei conflitti in Vietnam o nel Golfo) era la risposta corretta a un disastro senza precedenti. E non sarà comunque lui, nell’immediato, a renderne conto in termini politici o più ampiamente “storici”: in attesa di capire se la giustizia statunitense (finora abbastanza silente e inerte) chiamerà qualcuno degli “angeli caduti” di Wall Street alla sbarra. Più probabile una futura “Norimberga” organizzata da qualche commissione d’inchiesta del Congresso: davanti al quale se la sbrigherà, per ora, il segretario al Tesoro, Henry Paulson.

Anche l’ex banchiere della Goldman Sachs – chiamato due anni fa nell’amministrazione da un Bush evidentemente non all’oscuro della crisi in incubazione – si accinge però a sgomberare i suoi uffici: come tanti suoi ex colleghi-concorrenti della Lehman Brothers immortalati in questi giorni con gli scatoloni del licenziamento in mano. «Gli economisti tacciano, basta con i banchieri che se ne vanno tranquilli con la liquidazione dopo aver distrutti i risparmi della genet»: è stato succinto anche il ministro italiano dell’Economia. Giulio Tremonti, uno dei nuovo teorici dell’anti-mercatismo. Ma cos’è successo veramente a Wall Street e come ci tocca? E ora cosa succederà?

Una sequenza estremamente grezza e qualitativa di cause ed effetti su cui c’è abbastanza consenso risale a quando l’allora presidente della Fed, Alan Greenspan (oggi sempre più Grande Imputato) iniziò a denunciare l’“esuberanza irrazionale” delle Borse, salvo poi non far nulla per contrastarla, anzi. Era il giro di boa del millennio e i listini erano decollati sia sull’onda della crescita degli anni ’90 clintoniani, sia cavalcando la febbre dei titoli Internet.

Non più solo l’America, ma anche l’Europa aveva strutturalmente scoperto la finanza di mercato, con le privatizzazioni e con lo sviluppo dei fondi comuni, dei fondi pensione, del risparmio assicurativo. La “bolla di Internet” fu la prima “fuga in avanti”, la prima “grande illusione” del Big Bang iniziato a metà degli anni ’80 con l’integrazione tecnologica e globale dei mercati azionari e obbligazionari: il primo momento in cui tutti – dalle banche d’affari agli investitori grandi e piccoli – coiminciarono a convincersi che una “New” Economy potesse cambiare le leggi di quella tradizionale; che una finanza sempre più attrezzata e quindi ambiziosa potesse saldarsi con una (presunta) capacità miracolistica del web di accelerare la crescita della produttività reale: e questo avrebbe potuto garantire via Borse veloci aumenti di ricchezza prodotta e disponibili per un gran numero di risparmiatori.

Quando il gioco delle aspettative su Internet iniziò a cedere (a metà del 2000) e quando poi un anno dopo Al-Qaida scosse meno metaforicamente le certezze di Manhattan, la ricetta delle autorità monetarie Usa fu quella collaudata nei crack di fine anni ’80 (non diversa del resto da quella sperimentata anche in qeusti giorni): iniettare liquidità (materialmente: prestarla alle banche) nell’attesa-speranza che i timori si calmassero e si ristabilisse l’equilibrio sui mercati (tra quantità e scadenze dei risparmi e capitali offerti e delle attività investite). Quella liquidità, in realtà, è rimasta in circolo e ha costituito la droga di un altro “rave party”: quello dell’immobiliare.

Esattamente come negli ultimi mesi abbiamo osservato molti investitori finanziari cambiare affannosamente gioco (puntando speculativamente su titoli legati al petrolio e alle derrate alimentari), fin dall’inizio del decennio la finanza si è orientata sul mattone. Come già si era fatto per la e-finanza, le regole sono state forzate e l’abbiamo sperimentato anche nei paesi europei. Tradizionalmente una banca: a) non finanziava mai più del 50% di un acquisto di casa; b) poneva a base delle proprie garanzie una valutazione propria dell’immobile, non il prezzo stabilito dal mercato; c) chiedeva ordinariamente un tasso d’interesse fisso, che non esponeva il debitore a pericolose oscillazioni della rata mensile; d) in generale vagliavano con severità la capacità di rimborso nel tempo di chi si presentava allo sportello.

L’atteggiamento della banca è invece diventato quello di offrire mutui sul 100% dell’acquisto, accettando il prezzo di mercato (nell’ipotesi che potesse solo salire); orientando al tasso variabile (nell’immediato meno costoso e comunque nell’ipotesi che i tassi su euro e dollari non sarebbero mai più galoppati) e ponendo meno attenzione ai redditi e alla liquidità dei clienti. L’obiettivo delle banche – di qua e di là dell’Atlantico – era massimizzare i profitti di breve periodo e il boom dei finanziamenti immobiliari (a chi costruiva, a chi intermediava, a chi comprava) si è rivelata una via eccellente. Anche se – soprattutto in America – ciò ha spinto le banche a prestar soldi anche a chi, in condizioni normali, non avrebbe riscosso “merito di credito”: a chi era “sub-prime”, cioè “sotto il primo livello” di ammissibilità al credito.

E i rischi nuovi o aumentati? Ecco entrare in gioco le cartolarizzazioni, i “veicoli”, di “derivati di credito”: le “parole della crisi” di cui molti hanno fatto conoscenza solo in questi giorni. Ed ecco entrare in gioco banche d’affari secolari e blasonate, che spesso hanno ingaggiato le loro scommesse finali. Ecco le grandi banche cedere pacchi di miliardi di dollari o euro di mutui (alcuni già in sofferenza) a Lehman Brothers, Merrill Lynch, Bear Stearns, Morgan Stanley, Goldman Sachs e altre. Loro hanno creato dei veicoli (delle finanziarie ad hoc) che hanno emesso obbligazioni offrendole ad altri investitori, attratti dall’alto rendimento legato all’alto rischio.

In questo modo – hanno sempre pensato banche centrali e autorità di vigilanza di tutto il mondo -il sistema sarebbe stato più solido perché il pericolo era frammentato. In realtà, all’interno del mercato si è creato uno strato oscuro di legami finanziari nuovi – spesso sconosciuti a ogni organo di vigilanza – cui sempre meno l’investitore era consapevole dei rischi assunti. Che ne sapeva, alla fine, il sottoscrittore italiano di una polizza assicurativa index linked di Unipol o Mediolanum, del fatto che il rimborso e il rendimento del suo investimento era legato a un paniere di “obbligazioni derivate” emessa da Lehman? E quest’ultima, in ogni caso, non era una banca americana attiva da oltre un secolo e mezzo? A Wall Street non vigila la Sec? E il sistema creditizio americano non è forse sorvegliato dalla Federal Reserve?

Invece la bolla è scoppiata: i mutui subprime o in ogni caso facilmente concessi (e purtroppo facilmente accettati da chi non avrebbe potuto o dovuto) hanno cominciato a non essere ripagati. Le montagne di “derivati di credito” hanno cominciato a scottare e a somigliare a carta straccia: tra l’altro per una parte non piccola erano a scadenza assai più breve rispetto alle attività a lungo termine che finanziavano.

Tra mutui non onorati, prezzi immobiliari in frenata, banche che chiedevano il rinnovo dei titoli o che dovevano sempre più affannosamente cercare liquidità per rimborsarli, eccoci arrivati all’estate 2007 (dissesto dell’inglese Northern Rock) e infine alla settimana che ha visto spazzate via altre due delle cinque regine di Wall Street, mentre il primo colosso assicurativo mondiale (Aig) è stato nazionalizzato.

Anche il Tesoro americano si è arreso: tradendo anzitutto la propria missione istituzionale che è quella di difendere il valore della moneta nazionale e il credito. Invece immettendo già centinaia di miliardi di dollari di riserve Fed o semplicemente di nuove banconote, il dollaro perde valore e il debito federale degli Stati Uniti (da sempre il più solido) rischia di perdere la tripla A di rating. Chiedendo 700 miliardi di dollari di risorse federali (cioè prelevate dal gettito fiscale o dal debito pubblico) lega le mani al bilancio per decenni. Impegna risorse in un investimento rischioso: le attività “tossiche” di cui vengono liberate le banche in crisi possono recuperare valore (è stato così per l’analogo salvataggio, cinque volte meno impegnativo, della Cassa di risparmio) ma solo se l’economia riprende o almeno tiene. E la crisi finanziaria rischia di colpire i tassi e il debito/deficit pubblico Usa, mentre un dollaro svalutato non è necessariamente sinonimo di traino del prodotto via export.

Andando oltre: come ha notato polemicamente un economista liberista come Luigi Zingales su Il Sole 24 Ore, la sospensione del principio dell’economia di mercato secondo cui “chi sbaglia paga” rischia di essere gravissima sul piano del modus operandi di tutti: cittadini e grandi imprese. Se il proprietario di casa in difficoltà finanziarie troverà sollievo nell’essere diventato debitore dello Stato (che ha nazionalizzato le agenzie Fannie Mae e Freddie Mac), la Gm e gli altri colossi dell’auto di Detroit saranno più forti nel chiedere anche loro aiuti pubblici. Ma questo significa invertire traumaticamente la rotta lungo la quale non solo l’America ha marciato dal dopoguerra, ma tutto il mondo dopo il crollo dei regimi sovietici.

Meno Stato e più mercato, più privato, più impresa: è stato questo il “pensiero forte” che si è propagato nell’Unione Europea dopo gli schok petroliferi e poi in tutte le aree ormai “emerse”: da “Cindia” al Brasile, dalla Russia al Sudafrica., perfino nell’Islam meno radicale. Ora qualche centinaio di migliaia di “gerarchi” dell’industria finanziaria, carichi di superstipendi e stock-option, lascia enormi discariche di rifiuti finanziari da disinquinare a spese del contribuente.

Bush, andandosene, potrà sempre ricordare che si è trovato a spendere quasi per intero la sua presidenza a rimarginare l’enorme ferita delle Torri gemelle. Ma Obama o McCain rischiano di essere scelti dai cittadini statunitensi per gestire una “recovery” ancor più difficile e costosa, per di più provocata da altri.