«Alla fine un accordo ci sarà, ma bisogna ancora lavorare molto», ripete il candidato democratico Barack Obama, anche dopo la clamorosa impasse che ha bloccato il piano Paulson al Congresso.

Il candidato democratico alla Casa Bianca ha siglato con il rivale repubblicano John McCain un impegno congiunto a risolvere la crisi finanziaria americana come un’emergenza bipartisan e oggi sarà quasi sicuramente dal presidente Bush per un vertice straordinario. Ma già la forte riduzione dello stanziamento iniziale (da 700 miliardi di dollari a un semplice “anticipo” di 250) e la mancata intesa su altri punti qualificanti del rescue-plan – come il tetto alle retribuzioni dei top manager delle istituzioni bancarie e assicurative – aveva lasciato presagire una “crisi nella crisi”: squisitamente politica.

Ed è solo apparentemente un paradosso che sia l’ala più conservatrice del partito repubblicano – contraria a un pesante intervento pubblico – a sabotare (almeno in questa fase) un progetto su cui il prudente repubblicano uscente sta spendendo la sua residua credibilità con reiterati appelli in tv.

Dall’altro lato, i democratici (maggioritari al Congresso) hanno subito visto nel disastro di Wall Street una finestra – probabilmente inattesa – per rilanciare un welfare pubblico distrutto da otto anni di presidenza repubblicana e già molto ridimensionato anche nel decennio precedente, dominato da Bill Clinton.

In gioco – tra Washigton e Wall Street, non c’è – né potrebbe esserci – l’adeguatezza tecnica del piano Paulson, per quanto dubbia. C’è invece, e probabilmente è bene così per la salute civile degli Stati Uniti e non solo – la volontà della politica di recuperare almeno una parte del proprio primato sul mercato, che sembrava definitivamente perduto dopo almeno un quarto di secolo di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia.

Il paradigma dell’iniziativa privata giocata nella concorrenza e della finanza come regista della produzione e del consumo – ha fatto da matrice in Europa come in India, in Cina come in Brasile, ma ora è andato drammaticamente in crisi proprio nella sua patria. La sua forza intellettuale e operativa pare andata in frantumi con le major di Wall Street e né il cittadino (lavoratore, risparmiatore, contribuente e quindi elettore) né le istituzioni democratiche vogliono pagare una gigantesca cambiale solo perché il segretario del Tesoro (ex capo della prima banca di Wall Street) dice loro, da un giorno all’altro, che l’economia americana sta crollando e che non c’è tempo da perdere. Firmate qui, presto. No grazie, Mr. Paulson, decidiamo noi, prima vogliamo discutere e capire . E – come ha scritto impietosamente ieri il Financial Times – per cortesia lei intanto si accomodi. E il prossimo “ministro del dollaro” sarà bene che non venga dalla Goldman Sachs.