Più la crisi bancaria americana rivela tutta la sua gravità, più prende forma un singolare riflesso mediatico-culturale. Numerosi analisti e commentatori – che tuttora si auto-identificano in via esclusiva come “liberisti”, come se all’alba del XXI secolo tutti gli altri fossero sostenitori del “gosplan” – sembrano meno interessati alle cause e agli effetti reali del collasso di Wall Street e sul suo contagio globale, che a una pretesa guerra ideologica scatenata contro i principi del libero mercato.

Esemplare tra tutti è stato l’editoriale-manifesto del Financial Times “In difesa del libero mercato”: il vero dramma di questa crisi non sarebbe l’enorme eredità di perdite finanziarie per singole persone o intere collettività; non è la distruzione di interi settori del mercato finanziario e di un bene pubblico delicatissimo come il “credito”; non è neppure il rischio indotto di una lunga recessione e quindi di una più generale instabilità internazionale. No, il pericolo vero è che «i politici» (e in senso lato tutti coloro che svolgano riflessioni critiche su quanto è avvenuto) «traggano le conseguenze sbagliate» e chiedano correzioni agli abusi del libero mercato che fin d’ora scandalizzano i “liberisti” ben poco scandalizzati dallo tsunami di Wall Street.

Sono politici e osservatori critici i “soliti sospetti” da tenere sotto stretta sorveglianza, non l’ex presidente della Lehman Brothers, Dick Fuld, sparito indisturbato dalla circolazione (fors’anche con un po’ di cassa in tasca) lasciando dietro di se un’insolvenza da 600 miliardi di dollari.

Sono loro i nemici del libero mercato, anche se quello che è accaduto a Wall Street e continua ad accadere a Washington appare sempre più un gigantesco tradimento dei principi autentici della libertà di mercato: a) la concorrenza come selezione positiva per il merito e negativa per la proverbiale “moneta cattiva”; b) l’assunzione del rischio individuale e la responsabilità personale come premessa di un lecito arricchimento privato; c) la neutralità proprietaria e fiscale dello Stato rispetto alle attività imprenditoriali sul mercato; d) l’“integrità”, il rispetto delle regole condivise come elemento fondativo della libertà di mercato e il rifiuto dell’azzardo morale come vantaggio competitivo.

In concreto, il paradosso (più tragico che comico) è stato ben rappresentato dal presidente repubblicano George Bush che dalla Casa Bianca ha intimato più volte in tv: «Non è tempo di discutere, ma di agire»; mentre al suo fianco l’ex capo della Goldman Sachs chiamato a fare il ministro del Tesoro chiedeva 700 miliardi di dollari di tasse ai cittadini per salvare i banchieri falliti di Wall Street. 

L’impressione di un “colpo di Stato finanziario” improvvisato da dittatori-banchieri assediati anche se ben travestiti da leader istituzionali e tecnocrati è stata forte. Ed è curioso – ma solo fino a un certo punto – che a insorgere sia stata l’ala più conservatrice – “liberista” – dei repubblicani americani: e non in tv, ma in Parlamento, che rimane (faticosamente) la sede del confronto democratico tra i rappresentanti eletti dai cittadini.