“Fondo sovrano” è una delle parole passepartout di questo scorcio di secolo. L’ha evocata, per ultimo, a Cernobbio, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, auspicando che la Banca europea degli investimenti diventi un “fondo sovrano” del Vecchio continente. Ma appena poche ore prima l’allenatore dell’Inter, Josè Mourinho, aveva commentato favorevolmente l’acquisto del Manchester City da parte di un “sovereign” islamico. I sussurri e le grida delle ultime settimane sulla governance di Mediobanca ruotano attorno all’evidenza (sottolineata da Oscar Giannino) che essa è il “fondo sovrano del capitalismo italiano”, mantenendo posizioni strategiche in aziende-paese come Generali, Telecom ed Rcs. Da mesi, in ogni caso, si tratti del salvataggio di colossi bancari come Ubs o Lehman Brothers o di vecchie aziende pubbliche come Alitalia, delle vacanze in Italia dello sceicco dell’Oman o delle mosse della Russia di Putin (che molti osservatori considerano un fondo-sovrano fatto Stato) i fondi sovrani sono sinonimo di ancora di salvezza contro la crisi dei mercati e la penuria di capitali; ma anche di nuova orda barbarica, peggiore di Al-Qaida nel minacciare i vecchi equilibri geopolitici. Tremila miliardi di dollari gestiscono (ufficialmente) i fondi creati da realtà come Singapore, Emirati del Golfo, Cina e altri paesi (non tutti emergenti: ci sono anche Norvegia e Australia). Banche e aeroporti, alberghi (come il Gallia di Milano comprato dal Qatar) o anche industrie: qui sono finiti i “surplus” dell’export petrolifero o gasiero che – trent’anni dopo il primo shock – non servono più solo al treno di vita da nababbi di un pugno di famiglie reali.
È quindi curioso, dunque, che sia passato un po’ sotto silenzio il summit di Santiago del Cile del gruppo di lavoro messo in piedi dal Fondo monetario internazionale con l’Ocse, il Tesoro americano e rappresentanti dei fondi sovrani per stabilire delle “regole d’ingaggio” uniformi nella finanza globale. La bozza di documento approvata (che sarà formalizzata nella sessione autunnale del Fmi, a Washington) non ha fatto altro che sancire “nuovi rapporti di forza”, come ha sottolineato Alessandro Merli sul Sole 24 Ore. Ciò che i fondi sovrani hanno accettato (probabilmente di buon grado per non essere considerati ostili nei paesi dove hanno convogliato i loro capitali) è un semplice “codice di condotta”. “Non siamo hedge fund”, hanno fatto sapere i fondi sovrani in margine al vertice, sottoscrivendo 24 principi, ad ampio spettro che vanno dagli ambiti legali, di governance, istituzionali, di contabilità, ma dovranno contenere «informazioni anche sulla strategia di investimento dei fondi e di risk management», ha detto David Murray, presidente del fondo sovrano australiano, Future Fund. «I fondi sovrani devono competere sul mercato – ha detto – ma a differenza di altre istituzioni private come hedge fund e fondi pensione, hanno una responsabilità pubblica che li obbliga a divulgare certe informazioni». È rimasto più cauto nel commento di Hamad al-Suwaidi, numero uno di Abu Dhabi Investment Authority, uno dei fondi più importanti al mondo: «Il nostro impegno è di preservare gli interessi economici e finanziari dei fondi sovrani in modo tale da non metterli in una posizione di svantaggio rispetto alla concorrenza degli hedge fund.
In ottobre al Fondo monetario il dibattito risuonerà probabilmente più solenne, ma la sostanza del confronto non potrà essere molto diversa. Come ha scritto Merli: “Quando qualcuno ha bisogno urgente di soldi, difficilmente può fare troppo lo schizzinoso se trova chi è disposto a dargliene. L’accordo per l’adozione di un codice volontario di condotta da parte dei fondi sovrani risponde a un elementare incontro di domanda e offerta. I paesi industriali – e in particolare i loro sistemi finanziari, ma non solo – necessitano di capitali, i paesi con forti surplus vogliono trovare una destinazione redditizia (e finora in molti casi non lo è stata) ai loro fondi sovrani, a condizioni non discriminatorie rispetto ad altri investitori”. Con il particolare significativo che tali investimenti offrono oggi posizioni di vera supremazia in istituzioni vitali della parte avanzata del pianeta. Negli anni Settanta gli sceicchi obbligarono i cittadini dell’Occidente a non uscire in auto per qualche domenica cosa che poi i secondi fecero di loro volontà per ragioni ambientali, dopo aver imparato a sopravvivere col petrolio più caro. Ma oggi i figli di quegli sceicchi stanno entrando da padroni nelle banche che governano di fatto l’intera economia.