La settimana finanziaria è polarizzata – martedì 20 gennaio – dal summit periodico in Banca d’Italia dei top manager dei maggiori gruppi creditizi (da UniCredit a Intesa Sanpaolo, da Banco Popolare a Ubi, da Mps a Mediobanca a Bpm, oltre ai vertici Abi).
Al tavolo con il governatore Mario Draghi – almeno secondo prassi – ci saranno amministratori delegati e direttori generali: quelli che, nella governance da lui ritenuta più corretta, Draghi riconosce come “banchieri”, operanti nell’interesse delle istituzioni e del sistema, e non degli azionisti o di altri riferimenti esterni.
Non ci saranno dunque personaggi come Cesare Geronzi o Giovanni Bazoli: i presidenti che l’establishment politico-economico e i mercati identificano come plenipotenziari ultimi dei giganti bancari nazionali. E se da un lato è del tutto probabile che il tema della solidità patrimoniale delle banche italiane sia nuovamente in cima all’ordine del giorno, il Governatore non avrà di fronte tutte le controparti finali di una partita a tre (Tesoro, Bankitalia, banche) che si va complicando di giorno in giorno.
Appena venerdì, Moody’s – agenzia di rating ancora accreditata nonostante il ciclone dei subprime – ha nuovamente sollecitato il sistema bancario italiano a rafforzare i suoi livelli patrimoniali, pur senza fare diretto riferimento all’esigenza di iniettare velocemente capitali pubblici. Il piano Tremonti – modellato su quello francese, peraltro già operativo da due mesi, è d’altronde pronto, ma non è ancora attivo e non solo per questioni procedurali.
Come questa rubrica ha già più volte ricordato, il fronte bancario continua a essere abbastanza compatto in una tacita opposizione al salvagente pubblico: un pacchetto di misure che il Governo ha dovuto peraltro costruire nei giorni più drammatici della crisi nell’interesse delle banche stesse e per la sicurezza di credito e risparmio nel paese.
Resta comprensibile che lo Stato sia vissuto come un ingombrante ospite di ritorno da parte di tutti i protagonisti di un sistema bancario ormai privatizzato. Per di più l’intervento pubblico promette di essere complessivamente costoso (al di la del tasso di riferimento del 7,5% all’anno) per banche in larga parte quotate in Borsa e potenzialmente rischioso per manager che potrebbero vedersi puniti in caso di bilanci particolarmente pesanti.
Però anche Moody’s è stata chiara: senza rafforzamenti patrimoniali, un peggioramento dei rating rispetto ai concorrenti europei è nell’ordine delle cose. E l’indebolimento, prevedibilmente, andrà di pari passo con quello dei valori di Borsa, aumentando quindi il rischio di scalata, anzitutto dall’estero. Terzo e non ultimo: banche sottocapitalizzate sono meno capaci di erogare credito alle imprese in questa fase recessiva (è quanto ha sottolineato per tempo un raro banchiere pro-intervento pubblico, il presidente della Bpm Roberto Mazzotta).
La stessa Banca d’Italia, tuttavia, appoggia la “resistenza” delle banche a Tremonti. O meglio: sembra farsi talora scudo delle banche da lei vigilate e che sono tuttora sue azioniste per difendersi. Il fine è quello di mantenere la legittima autonomia di un’authority indipendente, dicono i paladini della Banca d’Italia, pur in una fase di fortissima crisi di fiducia globale nei tecnocrati finanziari.
No, Draghi si muove in chiave di esclusivo auto-sostegno contro il ministro Tremonti con il rischio di innescare spirali pericolose tra Stato, mercati finanziari, banche e strutture di vigilanza: è il punto di vista dei detrattori del Governatore, che vedono nelle mosse del presidente del Financial Stability Forum un semplice momento nazionale dell’autodifesa globale della casta di banchieri responsabili del crack. E se periodicamente lo scontro verbale con l’anti-mercatista Tremonti è al calor bianco, la guerra dei dossier creditizi è quotidiana e senza esclusione di colpi, mescolandosi con i duelli sulla politica economica.
Draghi ha respinto la pretesa di Tremonti di condividere la scelta del nuovo vicedirettore generale di Bankitalia (promuovendo dall’interno Anna Maria Tarantola), poi ha dato via libera all’aumento di capitale di UniCredit, garantito da Mediobanca, pur con ritardo e dopo molte riflessioni. L’inclusione degli strumenti ibridi emessi del patrimonio di vigilanza è infatti tecnicamente discussa.
Il Governatore si sta opponendo invece a una misura che Tremonti ha inserito nel decretone anti-crisi per “affrancare” gli avviamenti negli attivi delle banche. Queste ultime – secondo una norma rimasta in vigore senza modifiche – potrebbero ammortizzarlo (con beneficio fiscale) ottenendo nel contempo un effetto positivo nel patrimonio contabile. D’altro canto il Tesoro chiede un’imposta sostitutiva che comporterebbe per gli istituti un esborso di liquidità già nell’esercizio 2009.
Qui è la Banca d’Italia che considera tecnicamente problematica l’operazione e non è disposta a considerarla valida ai fini dei “ratio” patrimoniali. È quindi prevedibile che anche quest’opzione offerta al sistema bancario non registri adesioni, anche se il sospetto è che la Banca d’Italia tema un finanziamento straordinario del Tesoro stimabile in alcuni miliardi di euro proprio quando è sul tavolo il possibile trasferimento delle quote della Banca centrale dalla banche partecipanti allo stesso Tesoro. Mentre Tremonti ha fatto orecchie da mercante alla richiesta dell’Abi di avere piena deducibilità sulle perdite su crediti, la questione della proprietà di Via Nazionale è ufficialmente entrata in “terra di nessuno”.
La delega triennale per la statalizzazione della proprietà (chiesta a gran voce dagli economisti liberisti dopo i presunti conflitti d’interesse nel governatorato di Antonio Fazio) è scaduta da pochi giorni, anche se si discute sul carattere “ordinatorio” (cioè programmatico e “aperto”) della norma. Ma proprio nelle partecipazioni in Bankitalia, per lunghissimo tempo contabilizzate a bassissimi costi storici, banche come UniCredit e Intesa Sanpaolo cercano “riserve di grasso” per rafforzare i loro patrimoni.
Bankitalia, tuttavia, ha subito fatto sapere che nuove rivalutazioni non sarebbero computabili nei coefficienti patrimoniali: un paletto è stato posto in tempi non sospetti e non può essere rimosso. Ma ancora una volta il segnale informale è parso complesso. Draghi, è sembrato di intendere, ha voluto diffidare le banche dall’accettare qualsiasi offerta del Tesoro per quelle azioni, per quanto generosa. Tremonti, però, su questo versante sa di avere molte carte. L’intervento pubblico “salvabanche” e “salvacredito” potrebbe benissimo transitare attraverso l’acquisto per cassa delle partecipazioni Banktalia.
E poi l’alternativa del Governatore (il riacquisto da parte della Banca d’Italia delle sue stesse quote proprietarie) è discutibile per gli equilibri di bilancio della stessa banca centrale e non può in ogni caso essere realizzata senza il rinnovo e l’attuazione regolamentare della delega al Tesoro appena scaduta. Se d’altro canto lo status quo dovesse continuare in questo clima, il sospetto di conflitto d’interesse tra Vigilanza e banche vigilate (che era teorico fino al 2005) verrebbe prevedibilmente sollevato in ogni momento contro il Governatore.
Nel frattempo la Bce ha quasi formalmente aperto il cantiere di una “Bce-2” che ricostruisca a livello di Eurozona la supervisione bancaria andata drammaticamente in crisi. Sembrano questioni esoteriche riservate a pochissimi addetti ai lavori. Invece è in gioco la governance dell’infrastruttura per eccellenza – quella finanziaria – nella peggiore crisi economica del dopoguerra.