La catarsi dell’Italia “capitalista” e “borghese” nei sussulti e nelle lacerazioni delle sue “sovrastrutture” mediatiche non è destinata ad esaurirsi: neppure dopo che Eugenio Scalfari ha dichiarato (temporaneamente) chiusa la sua diatriba con Ferruccio de Bortoli. Quest’ultimo ha dovuto – e saputo – reagire con vigore a due attacchi di segno opposto: da parte del premier Silvio Berlusconi (che lo ha accusato di tradimento dello spirito borghese milanese) e quello del fondatore di Repubblica (che lo ha invece incalzato per presunto cedimento borghese al Cavaliere).

È vero che era stato proprio il direttore del Corriere della Sera a scoperchiare per primo il vaso di pandora della memoria “strutturale” del capitalismo ambrosiano, metafora di quello italiano. Era stato lui – sul palco simbolico della Bocconi – a fondere gli interventi del presidente-rettore Mario Monti, del prorettore Piergaetano Marchetti (giurista-demiurgo di Mediobanca e Rcs), del presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, e dell’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli.

Prima di lui – lo aveva segnalato due settimane fa questa nota, avvertendo dell’escalation in arrivo e della sua profondità – Monti aveva subito rivendicato con forza un’Italia “nata dalla resistenza”: ma non quella, ormai quasi settantenne, contro il nazifascismo; quella ben più giovane alla P2, cui i convegnisti della Bocconi dedicavano l’omaggio a Giorgio Ambrosoli e Paolo Baffi.

Ora – fuor dalla memorialistica – attaccare direttamente la loggia massonica di Licio Gelli (perseguita e condannata in svariate sedi: politiche, giudiziarie, mediatiche) significa riesumare intenzionalmente il passato del capo del governo in carica: iscritto alla P2, protagonista combattuto e dibattuto, ma oggettivamente indiscutibile dell’ultimo quarto di storia repubblicana. Un “borghese” autodefinito e orgoglioso lui stesso: lui che, negli anni ‘70, consentì di sopravvivere al Giornale di Indro Montanelli, campione giornalistico della “buona borghesia milanese”, rinnegato e cacciato prima di essere ri-santificato dal Corriere. Ancora Berlusconi – certamente appoggiato dalla lobby piduista – riuscì con Canale 5 dove avevano fallito sia Rcs (Prima rete indipendente, pure benvista dalla P2) e l’originaria Rete4 di Mondadori (popolatissima di firme di Repubblica), rilevata poi da Fininvest.

 

 

Riscorrendo gli appunti stenografici di un’epoca che tanti protagonisti, tuttora sulla scena, sentono l’urgenza di “riscoprire” in polemica durissima con gli altri, non c’è solo la partecipazione di Carlo De Benedetti all’ultimo azionariato del Banco Ambrosiano. Non c’è solo la già citata condanna in primo grado del finanziere di Repubblica per quel crack. Non c’è solo l’aiuto che l’Ambrosiano aveva dato anche alla Bocconi nei difficili anni ‘70. Non c’è solo – come ha polemicamente ricordato De Bortoli a Scalfari – l’ansia della neonata Repubblica perché il vecchio Corriere della Sera finisse travolto dal fallimento del Banco. Non c’è solo il fatto che De Benedetti abbia conosciuto all’Ambrosiano Giuseppe Ciarrapico, che tanti anni dopo gli restituì Espresso-Repubblica mediando la “guerra di Segrate” con Berlusconi, dopo il lodo Mondadori.

 

C’è anche il fatto che Angelo Rizzoli quasi trent’anni dopo non accusi i burattinai piduisti del Banco di avergli sottratto il Corriere nella liquidazione dell’Ambrosiano: ma “rivoglia indietro” (anche virtualmente) il Corriere dalla “borghesia milanese” che rifece suo il giornale con il supporto della famiglia Agnelli. C’è anche il rifiuto delle tre Bin di Mediobanca (Comit, Credit, Banco di Roma) all’invito della Banca d’Italia per l’azionariato di base del Nuovo Banco Ambrosiano: un fattore di pressione per riconquistare subito il Corriere dal tempestoso passaggio tra Vecchio e Nuovo Ambrosiano? Bazoli, è agli annali, dovette cercare appoggio in due banche romane pubbliche come Imi e Bnl per resuscitare l’Ambrosiano.

 

Ma – a proposito di incroci tra borghesia, finanza e media – tra tanti spunti non è minore il fatto che Bancor, il misterioso e informatissimo commentatore dell’Espresso di Eugenio Scalfari tra gli anni ‘60 e ‘70, fosse nientemeno che il Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli: l’uomo che – assieme al ministro del Tesoro repubblicano Ugo La Malfa – sostenne la Mediobanca di Enrico Cuccia nella battaglia finale contro Michele Sindona. Poteri dello Stato apertamente schierati – ai limiti dell’istituzionalità – nel polo della finanza “borghese” laica contro un altro finanziere siciliano che pur aveva certamente perduto la sua partita, finendo tra le maglie della malavita mafiosa. Chi, fino a che punto, con che stili formali, con quali esiti sostanziali riscriverà la storia della “buona” e della “cattiva” borghesia italiana, attorcigliata attorno alle banche e ai giornali?

 

PS: Negli ultimi giorni il Times – edito da un altro capitalista ultramediatico globale come Rupert Murdoch – ha violentemente attaccato la condotta militare italiana in Afghanistan. In questi giorni Telecom Italia (della quale Murdoch provò a divenire partner strategico con il “borghese” Marco Tronchetti Provera) sta decidendo il suo futuro: se il patto Telco (con Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Telefonica come pivot) deve restare saldo e non aprirsi a riassetti; se la capogruppo deve cedere o no la strategica piattaforma della tv digitale La7 (sotto l’occhio attento sia di Espresso-Repubblica che di Sky); se e come la rete Telecom deve sviluppare gli investimenti “di interesse nazionale” sulla banda larga. Quali confini può raggiungere l’uso strumentale dei “media” dietro lo scudo flessibile di una pretesa “libertà di stampa” e il mito incerto del “giornalismo anglosassone”?