La sentenza da 750 milioni sul Lodo Mondadori a danno della Fininvest a favore della Cir ha chiuso una settimana complessa, di non facile lettura. Lunedì scorso, all’Università Bocconi, sono convenuti personaggi del calibro di Mario Monti (commissario Ue inizialmente designato da Silvio Berlusconi, di cui però rifiutò poi la chiamata a ministro dell’Economia), Piergaetano Marchetti (presidente di Rcs, ex presidente del patto di sindacato Mediobanca), Giovanni Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo. L’occasione è stata un convegno in ricordo dei trent’anni dell’assassinio di Giorgio Ambrosoli (il liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona) e dei venti della morte amareggiata di Paolo Baffi, il Governatore della Banca d’Italia che pagò con le dimissioni l’opposizione alle trame finanziarie della P2 sfociate nel crack Ambrosiano.
Durante la commemorazione di uno dei passaggi più difficili della storia repubblicana, è giunta la notizia che Angelo Rizzoli Jr aveva formalizzato l’istanza di revisione delle procedure giudiziali che – nel calderone del fallimento Ambrosiano – portarono il Corriere della Sera sotto una proprietà di grandi banche e grandi gruppi industriali, che non ha poi avuto cambiamenti significativi. Rizzoli ritiene che di “esproprio” si sia trattato e – dopo essere stato riabilitato come persona (all’epoca del dissesto dell’editoriale finì pure in carcere) – vuole ora riconquistare la dignità imprenditoriale perduta trent’anni fa. In concreto: vuole che sia rimesso in discussione il salotto buono del giornale più prestigioso del Paese, in cui già siedono a fatica 17 gruppi tra cui Mediobanca, Intesa, Fiat, Pirelli, Ligresti, Della Valle, Caltagirone, Benetton.
Il legale che patrocina nel suo tentativo Angelo Rizzoli (il quale oggi vive di produzioni via satellite del gruppo Mediaset) è Romano Vaccarella: lo stesso che ha assistito la Fininvest nel giudizio civile perduto in primo grado sul “lodo Mondadori”, la cui manipolazione giudiziaria a Roma, avrebbe compromesso le “chance” imprenditoriali di De Benedetti. Ma anche il finanziere – oggi beneficiario di un gigantesco “bonus giudiziario” a spese di un suo storico concorrente politico e imprenditoriale – è lo stesso azionista “mordi e fuggi” che, quasi trent’anni fa, cercò di sfruttare al meglio la “chance” del Banco Ambrosiano: in difficoltà, bisognoso di nuovi capitali e nuovi appoggi. De Benedetti glieli fornì per due mesi – certamente attratto anche dal controllo di fatto, all’epoca, dell’Ambrosiano sul Corriere della Sera – salvo abbandonare un attimo prima del collasso finale e della morte di Roberto Calvi.
Il processo per il crack Ambrosiano condannò anche lui in primo grado (l’assoluzione arrivò solo in Cassazione) non credendo che il suo giro di valzer nel Banco – conclusosi con buon profitto finanziario nonostante il fallimento imminente – sia avvenuto senza piena conoscenza delle trame che vi erano celate. Il raid sull’Ambrosiano fu il secondo di De Benedetti: appena dopo aver tentato di sfilare la Fiat agli Agnelli dall’interno, come amministratore delegato; appena prima di avvicinarsi al gruppo Espresso-Repubblica di Eugenio Scalari non diversamente da come, negli stessi anni, Berlusconi aiutò Il Giornale di Indro Montanelli.
Il "lodo Mondadori" fu una tappa della lunga "guerra di Segrate", i cui passaggi sono noti: la famiglia Mondadori, in base a presunti accordi, avrebbe dovuto cedere il controllo dell’editoriale a Espresso-Repubblica, invece aprì le porte della Mondadori (e per un certo periodo anche di Espresso-Repubblica) a Berlusconi. Il "lodo" fu giudicato non valido da alcuni giudici romani che sono stati poi condannati nel 2007 per corruzione giudiziaria assieme a Cesare Previti, legale della Fininvest. La sentenza di sabato è il danno civile riconosciuto a valle di quel verdetto penale e – nella sostanza – ignora la transazione avvenuta già nel ’91 tra De Benedetti e Berlusconi: il mediatore – accettato da entrambi – fu Giuseppe Ciarrapico, il finanziere-editore andreottiano che era già stato nel consiglio Ambrosiano con De Benedetti e che oggi è senatore Pdl.
Come testimoniano le foto in bianco e nero ripubblicate in questi giorni, De Benedetti ebbe così la "chance" di riavere (con Scalfari) il giornale che da anni è la sua unica impresa. Dopo il tramonto industriale dell’Olivetti e la cessione speculativa di Omnitel a Mannesmann-Vodafone, ai limitati investimenti nell’energia si sono accompagnate iniziative sporadiche, come il fondo “salva imprese” Management & Capitali. Iniziativa mai decollata in quattro anni e oggi al centro di un’opaca guerricciola di Borsa. Ma nel 2005 il De Benedetti finanziere vi aveva invitato lo stesso Berlusconi, salvo poi ritirare imbarazzato la proposta dopo l’alzata di scudi della redazione di Repubblica contro il De Benedetti "tessera numero uno del Pd".
Sul tema della "doppia morale" si è esibito Augusto Minzolini, direttore del Tg1, in un contestatissimo editoriale critico contro la manifestazione di Roma, indetta di fatto da Repubblica per una presunta emergenza nazionale sul terreno della libertà di stampa. Lo scrittore Roberto Saviano, per tutti, ha lanciato dure denunce contro Berlusconi, accusato di voler imporre un “regime” ai media e in definitiva al paese. Poche ore dopo, un giudice monocratico di Milano ha tolto 750 milioni a Berlusconi dandoli a De Benedetti, alla vigilia di partite finanziarie importanti come possibili riassetti in Telecom, Generali, nel triangolo televisivo Rai-Mediaset-Sky (e allo sviluppo del digitale terrestre Espresso-Repubblica è direttamente interessata).
In settimana, sugli intrecci politica-media-finanza, sarà interessante ascoltare Luca di Montezemolo: il presidente della Fiat (grande azionista di Rcs e reduce dall’aver sollecitato a gran voce aiuti pubblici all’auto) presenterà una sua nuova fondazione di "cultura politica". Un think tank visto da molti come l’incubatore di una nuova forza politica di centro, capace di far convergere i tentativi scissionisti di Gianfranco Fini a destra e di settori moderati del Pd nel centrosinistra.
Il premier, d’altra parte, ha ricevuto sul fronte giudiziario un fendente pesante pochi giorni prima che la Consulta esamini le eccezioni di costituzionalità a un altro "lodo": quello predisposto dal ministro della Giustizia, Alfano, sull’immunità per le alte cariche dello Stato. Certo, ancora una volta la magistratura – in primis quella milanese – ha pagato uno scotto d’immagine, dando l’impressione di muoversi come potere proprio sul terreno della politica e dei grandi affari. Il Palazzo di Giustizia di Milano (lo stesso che decise nel 2005 le Opa bancarie su AntonVeneta e Bnl e decretò la fine del Governatore di Bankitalia, Antonio Fazio) sta alzando da mesi il tiro a 360 gradi: rinviando a giudizio lo stesso Fazio, negando il via libera al salvataggio di Risanamento (e Luigi Zunino è l’ultimo degli immobiliaristi di scuola berlusconiana), aprendo fascicoli spinosi sulla gestione finanziaria del Comune di Milano.
Questi – sgranati – i “fatti” che hanno punteggiato la scorsa settimana. Chissà quali ne tiene in serbo questa. Di certo non stiamo assistendo a un confronto di “buoni” contro “cattivi”. Che, classicamente, esistono nelle rispettive propagande quando i generali schierano le loro truppe (soldati, ma via via anche magistrati, giornalisti, scrittori, manager, politici, etc.). E quasi sempre fanno morti e feriti prima di decidere vincitori e vinti, fino alla prossima volta.