La svolta nell’impasse del gruppo Risanamento appare già come un interessante caso metaforico, sulla sfondo della grande crisi finanziaria globale e della più circoscritta (ma non meno accesa) crisi politico-giudiziaria italiana.

Il via libera del tribunale fallimentare di Milano al piano di salvataggio del gruppo Zunino messo a punto dalle grandi banche è giunto al termine di un cammino difficile. Questa nota settimanale ha ripetutamente segnalato e commentato il duro confronto ingaggiato dai Pm che denunciavano un crack sostanziale e incalzavano un vasto fronte “metropolitano” – capeggiato dalle tre big bancarie: Intesa Sanpaolo, UniCredit e Popolare di Milano – a farsi effettivamente carico di un salvataggio in alternativa a un fallimento quasi certamente prodromico a un processo per bancarotta.

E l’esito di cinque mesi di ovattata passione per la City meneghina è parso – se non proprio un “happy end” – una risposta a quel “buon senso oggettivo” che anche questa modesta rubrica già in estate prevedeva sarebbe infine emerso, prima ancora che augurarlo ai protagonisti.

Il giudice dell’udienza preliminare che nei giorni scorsi ha sbloccato il salvataggio ha mostrato d’altronde un’effettiva terzietà quando ha anzitutto riconosciuto che l’istanza avanzata dalla Procura di Milano era fondata: che Risanamento, a metà 2009, era insolvente e che era giunta al capolinea l’avventura di Luigi Zunino, il più solido e meno pittoresco degli immobilaristi dei primi anni del XXI secolo: non a caso l’unico non romano, assieme a Marco Tronchetti Provera e alla sua Pirelli Re.

È stato quindi corretto che gli inquirenti tenessero per mesi il punto (con i taciti rinvii-assenso del giudice stesso) fino a che la società e i suoi azionisti e creditori non avessero tratto tutte le conseguenze: l’allontanamento (fisico e finanziario) di una proprietà imprenditoriale che aveva fallito, il riequilibrio concreto del bilancio del gruppo Risanamento con un nuovo e diretto impegno dei creditori, un progetto di rilancio per i due grandi progetti urbanistici di Santa Giulia e di Sesto San Giovanni, la chiamata in campo di un manager di profilo riconosciuto come Claudio Calabi, ex dirigente di Mediobanca, poi amministratore delegato di Rcs e attualmente del Sole 24 Ore. Più oltre – nel piano – c’è il coinvolgimento di nuovi operatori immobiliari, anche nella cornice delle grandi opere che dovranno preparare Milano all’Expo 2015.

È ancora presto per definire tutto questo un “gioco di squadra”, sollecitato negli ultimi giorni cruciali anche dai grandi giornali milanesi. Certamente il caso Risanamento (ancor più del caso Hopa, l’anno scorso a Brescia) è sembrato dar corpo e rodaggio – “far giurisprudenza” – all’impianto della nuova normativa fallimentare: a quella che (attraverso l’articolo 182-bis) tende a superare sia il vecchio statalismo dei commissariamenti in stile legge Prodi (rivista in Legge Marzano per il crack Parmalat), sia il mercatismo totale delle ristrutturazioni/liquidazioni autogestite dalle grandi banche (con incidenti giudiziari postumi incorporati, come nel caso Trevitex).

Risanamento ha, in questo senso, buone prospettive di diventare il primo vero "concordato co-giudiziale" della finanza industriale italiana: a maggior ragione dopo che il giudice ha attribuito ai Pm inedite funzioni di "vigilanza" sullo sviluppo del piano.

In attesa di capirne la portata sulla carta e di seguirne l’applicazione concreta, pare di scorgervi tuttavia una simbolica via italiana al pesante compromesso globale in corso tra sistema finanziario-bancario e poteri pubblici: il primo ormai definitivamente "troppo grande per fallire/far fallire/lasciar fallire", ormai razionalmente capace di pretendere massicci aiuti pubblici e contemporaneamente di rifiutare sdegnato tetti ai bonus o vincoli all’operatività in finanza strutturata; i secondi (governi e G-20, banchieri centrali e Fmi, magistrature) in stato di oggettiva impotenza ad acquisire una conoscenza attendibile di quanto accade sui mercati o a correggere squilibri e perseguire reati (ma cos’è, oggi un "reato finanziario"? E l’eterea categoria dell"azzardo morale" è più o meno utilizzabile sul piano legale dopo il collasso di Wall Street?).

 

Su Risanamento i magistrati hanno ricostruito una situazione puntuale, applicandovi una puntuale normativa italiana, ma hanno comunque atteso che gli attori sul mercato si muovessero, peraltro pungolandoli. Hanno oggettivamente fatto i conti – nel piccolo-grande caso di un big immobiliare italiano in dissesto – con la possibile accusa di lasciare la "nuova Milano" allo stato di rovina preventiva a colpi di codice.

 

Si sono tenuti – in questo caso – alla larga da tentazioni "giustizialiste" in campo economico: realizzate invece appieno in altre stagioni. Non solo durante Tangentopoli, ma anche l’altroieri: radendo al suolo le sortite di Stefano Ricucci e Danilo Coppola e dei banchieri-finanzieri che li appoggiavano (Gianpiero Fiorani di Popolare Lodi e Giovanni Consorte di Unipol).

 

È vero che quegli immobiliaristi avevano tentato l’assalto a pezzi pregiati del settore bancario (AntonVeneta e Bnl) o mediatico (Rcs). Invece Zunino (vera controfigura in sedicesimo di Silvio Berlusconi, dapprincipio immobiliarista) aveva intessuto buoni rapporti con le big del credito, compresa Mediobanca, facendosi addirittura cooptare nell’esclusivo patto di sindacato, apparentemente sulle orme di quanto accaduto negli anni ‘80 per Salvatore Ligresti.

Mentre banchieri e consulenti si affannavano attorno al piano Risanamento, la vena giustiazialista ricorrente nel Palazzo milanese ha trovato sfogo in altra direzione: nell’inchiesta sulle bonifiche ambientali dei progetti Zunino, che aveva d’altronde originato il filone finanziario. Qui la custodia cautelare per la moglie dell’ex assessore regionale lombardo Giancarlo Abelli e per l’imprenditore Tonino Grossi , hanno certamente segnato una escalation diametralmente opposta alla soluzione concordata per Risanamento.

 

Eppure le vicende del dissesto finanziario e delle attività di riordino urbanistico (alla base di presunte tangenti) sono come minimo confinanti: la creazione e la circolazione di fondi illeciti nelle gestioni ambientali di Montecity può essere avvenuta nella rete estera del gruppo Zunino (sui cui bilanci i Pm hanno puntato sempre di più i riflettori per l’ipotesi di insolvenza). Dunque un interrogativo (oggettivo) resta aperto.

 

Le responsabilità penali sono individuali e la legislazione fallimentare è sempre più orientata a preservare l’impresa dall’"imprenditore che ha sbagliato" e dai suoi eventuali complici: ma è davvero possibile decidere "con la spada" che un dissesto finanziario è costruttivamente rimediabile come "incidente di percorso", mentre gli atti gestionali e amministrativi che possono averlo generato o aggravato vanno perseguiti penalmente con la massima severità? Un politico e un imprenditore appaltatore possono aver violato la legge e con gli strumenti di legge vanno perseguiti: ma la società dentro e attorno alla quale quei (presunti) reati sono stati commessi va invece trattata con la massima indulgenza possibile "per ragion di Stato" o "ragion bancaria"?

In questi giorni il dibattito pubblico italiano è d’altra parte tutto attorcigliato attorno alla “questione giudiziaria”, ai procedimenti aperti contro un premier dotato di reiterata maggioranza parlamentare in libere elezioni democratiche. Sarà interessante vedere se anche il Cavaliere – come tante banche di qua e di là dell’Atlantico – riuscirà definitivamente a imporsi al potere giudiziario come “troppo grande per fallire”. E/o se il Palazzo (in senso lato) tornerà sui suoi passi riportando sul tavolo parlamentare quel "Lodo Alfano" che tanto ha alla fine in comune con il travagliato parto del salvataggio Risanamento.

 

Compreso l’occhio benevolo di molti commentatori che sono stati inflessibili e giustizialisti con tanti immobiliaristi della prima ondata e non lo sono più stati con Zunino salvato dalle banche. Così come erano inflessibili e irriducibili con il Berlusconi nel suo primo decennio di vita pubblica e hanno trovato buone ragioni per non esserlo più ora: anche dopo aver visto – sempre nelle ultime settimane – il Cavaliere condannato da un giudice monocratico milanese a pagare 750 milioni di danni di un diretto concorrente (imprenditoriale e politico) come il gruppo De Benedetti, per una vicenda vecchia di vent’anni e chiusa da una transazione tra le parti.