La portata (non del tutto attesa) del protocollo finale di Basilea 2 sui nuovi requisiti patrimoniali di vigilanza prudenziale era chiaramente percepibile sul Financial Times di venerdì scorso. Il servizio sulla nuova bozza di accordo – licenziato il giorno prima dal Comitato di Basilea (composto da rappresentanti di banche centrali, tra cui quella italiana) – era relegato in quarta pagina (e una pagina interna sinistra, come ogni lettore allenato di quotidiani ben sa, indica di per sé la volontà di dare poca visibilità alla cosa).

L’apertura della prima pagina copertina era invece platealmente riservata alla polemica del Ceo della Deutsche Bank – Josef Ackermann – sulle tassazioni punitive dei bonus dei banchieri, in arrivo un po’ in tutta Europa su iniziativa del premier britannico Gordon Brown. Doppia provocazione, quindi, e molto affilata parte della “gazzetta della City”: all’utilizzo abile ma strumentale di un banchiere svizzero-tedesco (in ogni caso a capo di una banca guardata con costante ostilità del quotidiano britannico) per dar voce al malumore delle grandi banche internazionali si è affiancata la trascuratezza stizzita invece, per le novità strutturali in arrivo da Basilea, che sono a loro volta alla base della “rivolta dei banchieri”.

Eppure Basilea 2 non entrerà in vigore prima del 2012, cioè con un paio d’anni di ritardo sulla tabella di marcia originaria, concepita prima della Grande Crisi. Il Comitato ha dunque prestato orecchio alle richieste pressanti e corali giunte nelle ultime settimane soprattutto dai Governi e – dietro di loro, Italia in testa – dalle organizzazioni imprenditoriali: tutti preoccupati che una stretta sui requisiti patrimoniali di vigilanza prudenziale chiudessero ancora di più i rubinetti del credito.

L’introduzione, hanno detto i banchieri centrali di Basilea, sarà graduale, «su un periodo sufficientemente lungo per assicurare una transizione senza scosse» e dipenderà anche dal miglioramento delle condizioni finanziarie e dal consolidamento della ripresa economica. È apparentemente quanto un banchiere “privato” come l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Corrado Passera, voleva sentirsi dire.

Il problema, non solo per i bankers della City, nasce invece dalla mutazione di Basilea 2, inesorabilmente indotta dalla crisi finanziaria. La nuova bozza di Accordo non impone più alle banche soltanto di irrobustire in via quantitativa la loro base patrimoniale (come del resto suggerisce da un paio d’anni il Financial Stability Board guidato da Mario Draghi). Indica anche in via perentoria due vincoli. Il primo è l’immissione di capitale “vero”, con una tolleranza fortemente ridotta per le voci ibride tra debito e capitale che il ventaglio articolato dei “tier 1″e dei “tier 2” finora ammetteva per valutare la solidità di un intermediario finanziario.

In secondo luogo preme perché, da subito, i patrimoni bancari vengano rassodati nel modo più elementare: distribuendo meno utili agli azionisti e comprimendo in via sostanziale i bonus, cioè i compensi variabili ai manager, legati ai risultati di bilancio. Il motivo di tanta delusione nella piazza londinese è quindi spiegato, così come l’ampia risonanza data al grido di dolore di un banchiere tedesco contro la “guerra ai bonus”. Che sembrava, fino a pochi giorno fa, solo un’alzata populista da parte di quelli che la stampa finanziaria definisce con diffidenza e disprezzo i “politici”.

Da venerdì, invece, anche i banchieri centrali hanno puntato il dito verso i loro colleghi "imprenditori". I maxi-bonus – giudicati uno scandalo etico-politico dai governi – sono ora anche formalmente sotto processo da parte dei tecnocrati delle authority finanziarie: sono combattuti come un ostacolo all’exit strategy del sistema bancario in crisi. Se i governanti chiedono ai banchieri di "pagar pegno" per i fallimenti evitati a colpi di sussidi pubblici, i "vigilantes" decretano la condanna degli incentivi legati agli utili contabili trimestrali come mina per la stabilità dei sistemi finanziari.

 

E invitano senza troppi complimenti anche gli azionisti delle banche (in primis gli investitori istituzionali come fondi comuni, fondi pensione ed hedge fund) a non considerare più le banche come aziende quotate dalle quali pompare a piacimento utili o addirittura capitale nel gioco della Borsa. Le banche – in questa prospettiva di Basilea 2 – tornano a essere aziende "diverse": non più e solo troppo grandi, ma anche troppo importanti per fallire, cioè per essere "slot-machines" a esclusiva disposizione dei banchieri.