Un ennesimo G-7 (in attesa di un ennesimo G-8 in versione “large” in programma a Londra in aprile) ha registrato un ennesimo appello di Mario Draghi al sistema bancario perché faccia trasparenza – e quindi pulizia – nei propri bilanci intossicati dai 2.200 miliardi di dollari titoli illiquidi, se non addirittura senza più valore.

Il Governatore della Banca d’Italia – in versione leader del Financial Stability Forum – non smette di sgolarsi: lo fa dal G-7 di quasi un anno fa, il primo a occuparsi realmente della crisi globale deflagrata poi in autunno. Lo ha fatto per via amministrativa in Italia, chiedendo alle grandi banche informazioni supplementari di Vigilanza sull’esposizione alla finanza strutturata già nelle semestrali 2008. La sollecitazione perentoria è stata ribadita nei giorni scorsi d’intesa con Consob e Isvap e c’è da credere che sarà formalmente reiterata a voce sabato 21 febbraio a Milano, al tradizionale convegno Forex.

Ma il pressing operativo misto alla “moral suasion” ha effetti reali? Finora, purtroppo, la riposta è per lo più negativa e c’è da chiedersi se supervisori che non hanno saputo concretamente fronteggiare l’ondata montante della crisi non siano ora alle prese con una nuova partita persa in partenza: con conseguenze ancora più gravi.

Da un lato l’approccio dei banchieri centrali come Draghi – figli dei Big Bang dei mercati globali – parte sempre e comunque dal presupposto che i mercati alla fine si autoregolano e sono i migliori giudici e medici di se stessi. Authority e regulator – coscientemente ritiratisi dal ruolo di “carabinieri” a quello di “arbitri” o addirittura di semplici “custodi delle regole” di mercati del resto troppo grandi per essere controllabili – non dispongono più di quelle informazioni dettagliate che solo sistemi burocratici e dirigisti potevano ottenere, naturalmente su base nazionale e quando la finanza transitava molto di più dagli intermediari bancari.

Ma c’è dell’altro e il recente licenziamento del numero 2 della Fsa (l’autorità unica di vigilanza sui mercati finanziari della City britannica) ne è solo una spia drammatica, se è vero che il funzionario aveva in realtà piena conoscenza dei rischi assunti dai grandi colossi britannici come Royal Bank of Scotland.

Le grandi banche – da quella americane i cui top manager resistono ai tetti di stipendio imposti dall’amministrazione Obama a quelle britanniche od olandesi che fanno il doppio gioco con gli interventi pubblici – stanno facendo un’ostruzione più o meno palese alla corsa ai salvataggi dei governi nazionali spinti da opinioni pubbliche spaventate dai pericoli di fallimento.

L’inefficacia delle prime azioni – a cominciare dal piano Paulson varato a settembre negli Stati Uniti – è in parte addebitabile a questo: le ricapitalizzazioni d’urgenza sono avvenute sulla base di informazioni incomplete. E questo non solo per l’estendersi “fisiologico” della crisi, ma anche perché molti top bankers hanno continuato a nascondere le vere cifre, peraltro dopo aver sistematicamente creato per anni una galassia di “buchi neri”, veicoli di finanza derivata completamente al di fuori dei vincoli di trasparenza contabile

Nell’estate del 2007, il presidente della Fed Ben Bernanke stimava in 150 miliardi di dollari il “buco” dei subprime, oggi il consenso delle grandi istituzioni internazionali tocca i 2.200 e di questi solo un decimo sono stati neutralizzati nei bilanci.

È comprensibile allora che il direttore generale del Fmi, Dominique Strass Kahn, ripeta che «il risanamento delle banche è la priorità assoluta» per uscire dalla recessione, ma purtroppo è altrettanto comprensibile che il “piano Geithner” presentato nei giorni scorsi alle Camere degli Stati Uniti sia stato accolto con un misto di delusione e scetticismo. Forse la cifra colossale di 800 miliardi di dollari appare modesta, soprattutto se Obama la sta “vendendo” politicamente come “stimolo all’economia” e non come “medicina amara” per i contribuenti al fine di imporre una terapia shock alle banche.

D’altronde il “piano Obama” sta puntando diritto al cuore dell’establishment finanziario: è punitivo nei confronti dei banchieri (sostanzialmente invitati a farsi da parte) non solo con accenti di etica pubblica, ma anche con le difficili finalità operative di cui si sta discutendo in queste note. Un ricambio drastico nei management – come quello dell’ex capo di Merrill Lynch, John Thain – può essere non solo un salutare anti-scandalo (gli alti dirigenti di Merrill si sono assegnati miliardi di dollari di nascosto un maxi-bonus natalizio successivo ai primi aiuti pubblici di Fed e Tesoro Usa), ma anche la via obbligata per conoscere finalmente le reali condizioni delle banche e quindi per calibrare in maniera finalmente propria gli interventi.

Se il parallelo non appare sconveniente, troppe banche e troppi banchieri appaiono – più che finanziariamente intossicate – “tossicodipendenti” del tutto restii a curarsi. E – come ben sanno i volontari impegnati a supporto di comunità terapeutiche – i convegni, i corsi di formazione, i manifesti dell’Onu e non da ultimo le leggi sono utilissimi, anzi necessari: ma curare e recuperare davvero un singolo tossicodipendente è un’altra cosa. È un lavoro duro, incerto, scomodo perfino per chi è animato dalle migliori intenzioni.