Tra nazionalizzazioni evocate (in Italia), regolamentate (in Germania) e pronte per essere realizzate (negli Stati Uniti); tra bad banks (al plurale) accettate sulla carta (dal leader del Financial stability Forum Mario Draghi) e tentate nelle cose (in Gran Bretagna); tra bond bancari a gogò (in Francia) o col contagocce (ancora in Italia) la carovana della banche in crisi sembra procedere sempre più in ordine sparso.
Governi e banche centrali, del resto, passano quasi ininterrottamente da un summit all’altro senza mai fissare effettivi punti fermi per il risanamento del settore creditizio. L’attesa è ora tutta proiettata sull’appuntamento di aprile a Londra, dove il G-20 dovrebbe chiudere la fase di ripensamento e ricostruzione dell’architettura finanziaria globale aperto a metà novembre a Washington.
Ma la crisi avanza in terra di nessuno di giorno in giorno e la realtà finisce per superare spesso la fantasia. L’ipotesi che Tesoro e/o Fed diventino azionisti di controllo di Citigroup era impensabile quattro mesi fa, ora è quasi cosa fatta con il plauso di Wall Street. La concorrente Bank of America (ormai duopolista con City nella disastrata finanza Usa) continua tuttavia a puntare i piedi: eppure è il gruppo che ha salvato Merrill Lynch quasi sicuramente senza conoscenza piena delle perdite in bilancio e certamente ignorando la spartizione natalizia di maxibonus tra i top manager.
In Germania le nuove norme di legge per nazionalizzare il credito sono fresche di stampa, ma l’applicazione tarda. Si sa che Hypo Re – un gigante di finanziamenti immobiliari – è tecnicamente in dissesto, ma il paese che vanta più tradizioni di “finanza mista£ e di moderazione nello spazio lasciato ai mercati, forse non sa fino a dove dovrà spingersi: dietro Hypo si scorge già il profilo di Deutsche Bank, letteralmente e storicamente la banca ammiraglia del paese. La nazionalizzazione sarebbe un colpo d’immagine per l’amministrazione Merkel e forse un’inversione di tendenza che l’intera finanza continentale cerca di evitare a tutti i costi.
In Italia il premier Silvio Berlusconi – come del resto aveva fatto in autunno – ha giocato sull’effetto-annuncio: un po’ per tranquillizzare l’opinione pubblica dei risparmiatori di fronte ai nuovi crolli in Borsa dei titoli bancari; un po’ per premere sulle stesse banche italiane, molto restìe a qualsiasi forma di intervento pubblico. Però una prima apertura (non entusiasta) da parte del Governatore della Banca d’Italia è giunta solo sabato al Forex di Milano. Dove, peraltro, sono state rilanciate ancora ipotesi meno “hard£: come la garanzia pubblica ai nuovi crediti alle imprese, con meno esigenze immediate di cassa da parte dello Stato e apparente assenza di intrusioni governativi nella proprietà e nei management delle banche.
Ma basterebbero misure di questa portata a riattivare nei mercati finanziari una fiducia che dovrebbe poi ridiffondersi nell’intera economia? Resta il peso dei titoli tossici, derivati dal crack della finanza immobiliare. La loro entità è ancora avvolta nel mistero, anche se la scadenza-verità dei bilanci 2008 è ormai vicinissima e si moltiplicano gli appelli per una sospensione delle regole contabili rigidamente ancorate ai valori di mercato (Ias).
Però nei prossimi giorni la Gran Bretagna potrebbe tenere a battesimo la prima “bad bank”: naturalmente non globale e neppure nazionale, ma – più realisticamente – aziendale. Sarà la Royal Bank of Scotland, una delle banche inglesi più disastrate, già sorretta da robusti aiuti del Governo Brown – sta accelerando nello scorporo degli asset insoluti o illiquidi. Sarà in ogni caso un banco di prova.
A quale prezzo saranno trasferiti i titoli (prevedibilmente centinaia di miliardi di sterline)? Era lo scoglio su cui si è arenato l’originale piano Paulson, che avrebbe dovuto liberare i bilanci dei giganti di Wall Street. Qui, invece, sulla carta, saranno tutti gli azionisti dei Rbs a sdoppiarsi nel ruolo di soci di un nuovo contenitore.
Ma quali saranno i creditori della “bad bank”, di fatto co-investitori in una lunga scommessa di risanamento dei mercati? In teoria non i depositanti-correntisti di Rbs, ma sarà comunque interessante vedere quale meccanismo di spin-off delle passività verrà scelto.
Prevedibile che lo Stato interverrà per stabilizzare la bad bank, ma con quanti mezzi e quali modalità tecniche? Favorevole alle “bad bank” si è detto anche Draghi, forse prevedendo che le grandi banche italiane potrebbero adottarla.
Nel passato recente della storia creditizia nazionale ce n’è già traccia: nel fallimento del Banco Ambrosiano dell’82 (quando però la “good bank£ nacque con l’aiuto di capitali di altre banche, pubbliche e private) e quello del Banco di Napoli, a metà degli anni ’90. Dove lo Stato garantì la bad bank.