L’ennesimo “G-20 del fine settimana” non ha quasi lasciato traccia, ma non è una notizia. Il summit dei ministri finanziari era stato convocato per sciogliere il ghiaccio con il neo-segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner e aveva essenzialmente fini preparatori di quello a livello di capi di Stato e di Governo in programma a Londra all’inizio di aprile.

È lì che, nelle premesse, dovranno essere sciolti – o più probabilmente tagliati – i nodi gordiani della crisi globale. E il problema principale resta non confondere – o eludere – le cause da rimuovere (i 2.200 miliardi di dollari asset tossici, in gran parte già maturati in perdite nei bilancio delle banche) con le conseguenze da fronteggiare (la recessione, il calo dei redditi e la disoccupazione) e con gli strumenti da utilizzare (non solo per chiudere i conti con il passato ma per ricostruire il futuro).

Non è un caso che anche il G-20 di Horsham si sia tenuto lontano da un “redde rationem” operativo sulla crisi bancaria e abbia preferito discettare ancora di terapie, peraltro abbastanza a carte coperte. La differenza di vedute tra Europa e Stati Uniti è stata riferita dai “media” a una maggior attenzione della Ue per il ridisegno delle regole, “versus” un pressing americano per le cosiddette “politiche di stimolo”. In concreto la questione prioritaria – intatta nella sua durezza – resta: come e da chi verrà pagato il gigantesco conto della crisi?

I bilanci 2008 delle banche sono in pubblicazione in queste settimane, ma è chiaro che non stanno fotografando ancora in piena luce gli effetti del collasso dei mercati. Nonostante le ondate di aiuti pubblici molte banche – su entrambe le sponde dell’Atlantico – sono ancora a rischio fallimento, soprattutto allorché la frenata dell’economia (si pensi all’Est europeo) sta peggiorando ulteriormente la situazione finanziaria di Stati, imprese e famiglie. D’altro canto un gran numero di banchieri ancora in carica sa che accogliere l’appello ripetuto da un anno a ogni “summit del weekend” (“Fate pulizia dei vostri bilanci”) avrebbe/avrà per conseguenza le dimissioni, spesso la rinuncia alla buonuscita e in qualche caso addirittura incriminazioni giudiziarie.

Quando al G-20 di Londra si parlerà davvero di “regole”, in concreto si tratterà di predisporre un percorso normativo e finanziario per traghettare il sistema bancario in un nuovo mondo. A un ipotetico estremo c’è una bad bank globale in cui tutti i paesi del G-20 si ripartiscono i 2,2 trilioni di dollari di “buco” bancario secondo un criterio condiviso (anche nell’assegnazione di eventuali “salvacondotti” politico-giudiziari per banchieri, capi di authority, responsabili di agenzie di rating, etc di cui venissero accertati “crimini” di varia natura contro il mercato finanziario). All’estremo opposto c’è l’ordine sparso, cioè un nuovo “non-ordine mondiale” nel quale ciascun sistema bancario (o addirittura ciascun singolo gruppo bancario) paga i suoi danni, al massimo con la stampella (se c’è) di un governo nazionale.

È ovvio che più la exit strategy sarà vicina questa secondo scenario, più avrà senso parlare di “deglobalizzazione” della finanza e – almeno in parte – dell’economia nel suo complesso. Un “ricentraggio” si annuncia però inevitabile anche per l’“ubi consistam” della banca, per le sue “reason why” dicono sui mercati. Ma l’inglese non è detto rimanga con certezza la lingua dominante sul latino, a lungo “koiné” del continente europeo.

Fuor di metafora, la grande crisi ha fatto tornare drammaticamente in discussione un tema di “costituzione economica materiale”, che l’Europa ha superato da pochissimo. La Seconda Direttiva Ue del ’92 (recepita in Italia dal Testo unico Bancario in vigore dal ’94) ha mandato in pensione normative bancarie che, in misura più o meno rilevante nei vari paesi, dava alla gestione del risparmio e all’esercizio del credito un rilievo pubblico. Una filosofia coerente con la struttura di controllo statale di sistemi bancari usciti dalla grande crisi degli anni Trenta e poi dalla Seconda Guerra Mondiale.

La direttiva bancaria ha invece sancito che il modello di “ente creditizio” nell’Unione è invece l’impresa bancaria con fine di lucro, tipicamente organizzata in società di capitali (implicitamente: quotata in Borsa). È parsa – ed è stata – l’affermazione dell’intermediario bancario caratteristico del capitalismo finanziario anglosassone: quello che ha il suo archetipo nelle Compagnie delle Indie nate nel ‘600 sull’onda lunga dello sviluppo coloniale. È il rischio e l’aspettativa di profitto che innesca quei circuiti finanziari, che infatti alimentano da subito le Borse. E le banche – che nascono per iniziativa dei ricchi privati – sono un po’ finanziatori diretti, un po’ broker, un po’ asset manager, un po’ holding.

Non che – fin dal tardo Medioevo – questo banking fosse sconosciuto nell’Europa continentale (anche nell’Italia dei Comuni e delle Signorie), anzi. Ma almeno altre due tradizioni sono vitalissime: quella dello Stato banchiere e quella della cooperazione e del mutualismo. Questi ultimi, in particolare, sono il “banking dei poveri” e hanno la loro storica radice socioculturale nella lotta all’usura e nella solidarietà. Perfino la Seconda Direttiva Ue la mantiene come unica alternativa all’“impresa bancaria” perché – anche solo riferendosi alle banche modello Raffaisen come le Bcc italiane – il comparto pesa dal 10% al 30% nei vari Paesi dell’Eurozona.

Nel mondo – all’apice della globalizzazione – le varie forme di credito mutualistico sommavano il 9% delle transazioni. È un modello che in un pianeta più popolato di poveri anche nelle zone avanzate, siederà per definizione al tavolo della rifondazione bancaria. Lo Stato banchiere – dopo vent’anni di anatemi e di privatizzazioni forzate – ha già quasi reinvestito quei mezzi nei salvataggi pubblici da centinaia di miliardi di dollari ed euro ovunque. Ma un conto è chiedere pronta cassa fondi fiscali per puntellare il mercato, magari imponendo le gabbie dei controlli amministrativi (ultimo quello chiesto da Barack Obama: un rendiconto mensile sui crediti alle Pmi da parte delle banche americane sorrette del bilancio federale). Ben diverso è ripensare – se non le strutture istitiuzionali – la filosofia del grande credito statale europeo degli ultimi due secoli, a cominciare dalle grandi Casse di risparmio di origine mittelleuropea.

Quando a Londra si parlerà di “nuove regole per la finanza” (e perfino la Russia di Putin intende dire la sua), sarebbe illusorio rimanere nell’ambito dei ritocchi all’interno della regulation dei mercati e non affrontare la questione alla radice, nei modelli. Il passato remoto non può tornare, ma non devono tornare neppure gli errori del passato prossimo.