Telecom ha annunciato un consuntivo 2008 apparentemente accettabile sullo sfondo della crisi globale. Certo, l’utile consolidato è diminuito (-9,2% a 2,2 miliardi di euro) ma non si è azzerato. È ulteriormente calato il debito (a 34 miliardi di euro) che pure resta elevato, palla al piede per le strategie del gruppo (e nel decimo anniversario della “madre di tutte le Opa” – lanciata da Roberto Colaninno ma concepita a Wall Street – i dubbi di allora sull’arrembaggio della finanza “a leva” sull’impresa sono intanto divenuti certezza).
Il consiglio d’amministrazione di Telecom ha in ogni caso deciso di distribuire un dividendo di 5 centesimi ai soci: non proprio simbolico in termini di rendimento per chi avesse acquistato in Borsa il titolo negli ultimi mesi, a un prezzo di poco superiore all’euro; e in fondo neppure per gli azionisti stabili della holding Telco (Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Benetton e Telefonica) che due anni fa avevano rilevato i titoli Telecom da Pirelli a circa 2,5 euro e stanno ora sopportando forti svalutazioni in portafoglio.
I mercati azionari – che non escludevano il congelamento integrale della cedola – ne sono rimasti ovviamente rincuorati. Ma c’è più di un “ma” e gli interrogativi non attengono soltanto le grandi questioni strategiche: la stabilità del nocciolo duro (fatto di essenzialmente di istituzioni finanziarie, oggi sotto pressione); i rapporti con un partner-concorrente estero come Telefonica sullo sfondo del ridisegno permanente del mercato tlc; il destino, infine, dell’infrastruttura-rete, messa ora sotto la sorveglianza di un comitato para-pubblico presieduto da Giulio Napolitano, figlio del presidente della Repubblica.
C’è una questione che emerge direttamente dal bilancio e che assume – sul terreno dell’applicazione dei principi contabili – valore simbolico della profondità della crisi culturale che investe l’economia, al di là delle cifre drammatiche del dissesto finanziario e della recessione.
Nell’attivo patrimoniale Telecom è rimasto infatti invariato il valore dell’avviamento a ben 44 miliardi di euro (pari a metà circa delle attività totali consolidate). Il cosiddetto “goodwill” è il più classico dei “valori intangibili” di un bilancio (a fianco di marchi e brevetti), cioè degli asset patrimoniali diversi da quelli direttamente misurabili o stimabili come cassa, crediti, magazzini, partecipazioni, terreni e fabbricati, impianti, etc. Esprime – come del resto ben sanno anche piccolissimi imprenditori – quel plus di “valore intrinseco” che si ritiene che un’azienda possieda per il fatto di essere “in funzione” (l’espressione tecnica inglese è “ongoing concern”), concretamente vitale sul mercato.
In termini di economia aziendale e quindi di contabilità, l’avviamento è propriamente un’aspettativa di reddito (o di altra creazione di valore: per esempio di maggior prezzo in caso di cessione o di più favorevole valore di concambio in caso di fusione) incorporata nell’azienda, al di là dei singoli valori contabili delle sue attività patrimoniali. È una voce che già negli anni più recenti della finanza ruggente si è già fatta notare per la sua alta pericolosità.
È già un caso da manuale la fusione-principe della new economy: quella tra America Online e Time Warner tra 2000 e 2001, propiziata dal valore altissimo raggiunto a Wall Street della pioniera tra le web-company. Fu un’operazione “carta contro carta”, ideale quindi per gonfiare a piacimento i valori (come accade per le ipervalutazioni di alcuni scambi alla pari di oscuri calciatori tra grandi club). All’attivo della nuova società fu quindi iscritto un goodwill astronomico di 150 miliardi di dollari: indicatore, sulla carta, di una gigantesca riserva di “valore intrinseco” giudicata effettiva dagli amministratori di Aol-TimeWarner in virtù del felice matrimonio tra un campione dei “media” tradizionali e una velocissima matricola della new economy.
Ma già dopo l’11 settembre quelle attese andarono in fumo e due terzi di quel goodwill (circa 100 miliardi di dollari) furono brutalmente abbattuti. Il titolo, naturalmente, crollò. Gli amministratori della società, tuttavia, non poterono che svalutare, benché alla base del raffreddamento dei mercati e dell’economia non vi fosse una gravissima crisi sistemica come quella attuale, ma un crash geopolitico poi gradualmente assorbito dai mercati.
Essi obbedirono in ogni caso alle regole applicative dei nuovi principi contabili internazionali Ias: quelli direttamente innervati nella cultura dei mercati contemporanei, secondo la quale obiettivo dei bilanci è quello di esprimere “fair value” (“valori corretti, onesti”), in linea di principio calcolati “mark-to-market” (quindi: valore puntuale di un bene sul mercato o suo “presunto valore di realizzo” in quel momento). E anche l’avviamento – così come gli altri valori intangibili – va quindi sottoposto periodicamente al cosiddetto “impairment test”: in concreto a una verifica aggiornata dell’attendibilità delle previsioni di reddito che stanno alla base di quel “plusvalore” iscritto in bilancio.
Il comunicato Telecom di venerdì 27 febbraio conferma che il “test di allineamento” per il 2008 è stato effettuato, «ma ha evidenziato valori recuperabili superiori ai valori di carico, per cui non sono state effettuate riduzioni di valore dell’avviamento». Il passaggio sembra di routine, ma non lo è, né potrebbe esserlo in una fase come l’attuale.
Non è un caso che l’espressione «valore recuperabile» faccia diretto riferimento a un libro presentato appena pochi giorni fa all’Università Bocconi: “L’impairment test nell’attuale crisi finanziaria e dei mercati reali”. Gli autori sono l’ex rettore Luigi Guatri e Mauro Bini, un altro aziendalista dell’ateneo milanese. Lo studio teorizza in modo strutturato la necessità di un “impairement test straordinario”, ispirato al calcolo appunto del “valore recuperabile” per fronteggiare un crisi economico-finanziaria di gravità tale da mettere in discussione gli esiti dell’impairment ordinario.
In concreto: l’enorme caos sui mercati è un buon motivo per evitare qualsiasi svalutazione e per proiettare più in là le previsioni. La questione dell’uso “irragionevole” dei principi contabili di fatto appena entrati in vigore sembra da addetti ai lavori, ma non lo è se il risultato è una nuova drammatica auto-sconfessione della finanza di mercato: la seconda dopo quella già dichiarata in autunno quando furono sospesi gli Ias nella valutazione dei titoli finanziari “tossici” (illiquidi) nei portafogli delle banche. Quei titoli – calcolati con gli Ias “mark-to-market” – oggi valgono zero e dovrebbero essere cancellati dai bilanci delle banche che li hanno in portafoglio. E queste probabilmente sarebbero condannate al fallimento in numero molto superiore alla catena di crack che ha già punteggiato il collasso dei mercati, con effetti ancor più distruttivi. In parallelo: cosa sarebbe del bilancio Telecom se avesse dovuto abbattere il goodwill in misura paragonabile alla maxisvalutazione di Aol-Time Warner?
Tra lo stupefatto e lo scandalizzato, l’irritato e l’apocalittico, il principe degli economisti liberisti, Francesco Gavazzi, ha recentemente dedicato un intero editoriale su Il Corriere della Sera alla «situazione assurda in cui ci siamo infilati». Scrive: «I prezzi delle attività finanziarie quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13%; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri».
E poi: «I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa?».
Ancora: «In una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è».
Osservazioni ineccepibili e tutt’altro che accademiche se si considera che tutte le grandi banche italiane – per quanto dichiarate ogni giorno “solide” da Governo e Banca d’Italia – hanno perso due terzi del valore di Borsa e chiederanno ora almeno 12 miliardi di euro di aiuti pubblici per tranquillizzare risparmiatori e sostenere l’erogazione del credito alle imprese.
Ma quello che Giavazzi – ma anche i suoi colleghi della Bocconi impegnati a salvare capra e cavoli nei bilanci dei grandi gruppi come Telecom – trascurano di ricordare è che la “situazione assurda” è stata creata dallo sviluppo “talebano” – “irragionevole” – delle dottrine liberiste. E che fino a che i mercati gonfiavano le loro bolle nessuno si è mai sognato di mettere in discussione la validità di tutte le logiche che spingevano i banchieri alle operazioni più spericolate per contabilizzare profitti o attivi virtuali da cui prelevare bonus reali.
Ora ascoltare proprio da quei pulpiti la denuncia di tutte le distorsioni (in parte prevedibili) di quelle dottrine e di quel tecniche, invocando la pura e semplice neutralizzazione degli effetti indesiderati, fa molto pensare: anche solo riguardo l’ulteriore danno inferto alla credibilità del mercato (che è rispetto delle sue convenzioni, anche quando queste andassero ripensate), proprio quando gli stessi intellettuali si scagliano contro la presunta violazione del mercato da parte degli interventi statali d’emergenza. Sono i bambini che gridano «non vale» quando il loro gioco volge al peggio.
Poco dopo la metà del ‘700, lo scozzese Adam Smith fondò la scienza economica su una prima distinzione: quella tra “valore d’uso” e “valore di mercato” di un bene. «L’acqua è fondamentale per la vita di un uomo, ma se ce n’è molta e non costa nulla non interessa l’economia».
Hanno ragione gli economisti della Bocconi a ricordarci, nel 2009, che Telecom – o UniCredit e Intesa Sanpaolo – sono tutt’altro che aziende fallite: che continuano ad avere un “valore” – e a essere soggetti economici vivi – anche se il loro “prezzo” (sul mercato e/o nei loro aggregati di bilancio) è pericolosamente basso.
Ma questo, forse, lo sapevamo già, anche perché Smith nella “Ricchezza delle nazioni” bada bene di parlare sempre di economia reale: di botteghe di birra e di fabbriche di spilli, non di derivati. Invece – come Gordon Gekko in una celebre scena del film “Wall Street” – anche noi vorremmo che ci si dicesse qualcosa che ancora non sappiamo o non capiamo. Come e perché sono stati introdotti (da tre anni per legge anche in Europa) dei principi contabili internazionali che hanno accelerato l’“alienazione” di un’impresa in mero oggetto di transazioni di Borsa e in pozzo di stockoption? E perché l’avanzata magnifica e progressiva dell’autonominato “libero mercato” nella finanza globale ha portato un gigante della telefonia come Telecom a pareggiare in bilancio il debito incorporato dopo un’Opa a leva con un “avviamento” talmente “intangibile” che neppure i luminari della Bocconi osano più avvicinarvisi.