La crisi “anomala” di Piazza Affari – dove l’indice S&P/Mib ha perduto dall’inizio dell’anno il 33,7%, quasi il doppio della caduta dell’indice Stoxx delle blue chip europee – si accompagna nelle analisi di questi giorni alle evidenze di de-globalizzazione dei flussi di capitale.
Come ha rilevato Il Sole 24 Ore, l’effetto-panico sulle Borse provoca “fughe verso la qualità”. Queste premiano i titoli di Stato su quelli azionari, su quelli di debito privato e sugli altri strumenti finanziari e – può sembrare in parte un paradosso – privilegiano gli Stati Uniti sul piano geografico, nonostante proprio Wall Street continui a essere l’epicentro della crisi sistemica. Oppure premiano la storica appetibilità del Bund tedesco, sebbene quel sistema bancario non sia certo considerato tra quelli attualmente più sani. Ma tant’è. La capitalizzazione dei 336 titoli azionari quotati alla Borsa italiana si è ormai contratta al di sotto della stima del valore degli immobili della sola città di Milano; ma anche – quel che più conta – al livello del 17% del Pil: un rapporto che in Italia si registrava vent’anni fa, cioè al punto di partenza della rivoluzione finanziaria.
A fine anni ‘80 le privatizzazioni italiane dovevano ancora iniziare e, d’altra parte, il risparmio degli italiani – tradizionale risorsa del paese – aveva appena iniziato a diversificare il suo impiego. I fondi comuni d’investimento erano stati appena disciplinati e avevano cominciato ad attirare gradualmente mezzi non più monopolizzati dal debito pubblico nazionale o da un sistema creditizio domestico poco concorrenziale e protetto. Il primo boom di Borsa (maggio ‘86) aveva avvicinato molti italiani anche all’investimento diretto sul mercato.
Vent’anni dopo l’Italia si trova a registrare con preoccupazione di aver corso molto – forse troppo – sulle piste del capitalismo finanziario: al punto da non aver più neppure una Borsa propria. Borsa Italiana è stata fusa con il London Stock Exchange e – come ha dimostrato l’ultimo ricambio del chief-executive-officer – non ha voce in capitolo nella governance (e chissà se qualche frazione dell’arretramento di prezzi e indici è da addebitarsi anche al disarmo della società mercato).
Le public company create nel frattempo sulla penisola (dalle banche alle compagnie di assicurazione alle utility) sono divenute facilmente scalabili, laddove non richiedono salvataggi pubblici. E ancora una volta i maggiori problemi vengono da quei gruppi che hanno “globalizzato” di più (come le banche nell’Est europeo).
D’altro canto l’industria dei risparmio gestito – che si era organizzata in misura rilevante sotto il controllo delle grandi banche – ha registrato perdite rilevanti proprio per la diversificazione strutturale crescente (e c’è da chiedersi se il mancato decollo dei fondi pensione sia a questo punto un fatto positivo o se, viceversa, questa particolare categoria di investitori istituzionali avrebbe potuto offrire qualche forma di puntello ai mercati).
Le banche, d’altronde, devono badare ai propri difficili equilibri di liquidità, oltre che rispondere alla pressione delle forze politiche, imprenditoriali e sindacali a mantenere e migliorare gli standard di erogazione creditizia alle imprese piccole e medie. Perfino il Tesoro – pur agevolato dai bassi tassi d’interesse – deve lottare sui mercati per finanziarsi, soprattutto allorché resta lontano il possibile coordinamento Ue nell’emissione dei titoli pubblici dei Pesi membri.
Al di là di giudizi demagogici sia sugli eccessi della finanza di mercato sia sulla necessità di tutelarla “a prescindere”, è difficile capire concretamente quali evoluzioni possa conoscere “il risparmio degli italiani”. L’unico dato di partenza è che un “sistema finanziario nazionale” – pur all’interno dello spazio monetario dell’euro – è destinato a sopravvivere e forse addirittura a riconsolidarsi. Ponendo ovviamente una serie nuova di sfide, opzioni e vincoli, ancora poco leggibili, per chi vorrà operare come intermediario, per chi dovrà impiegare risparmio o approvvigioranarsi, per chi dovrà fissare regole e vigilare.
Alcuni paralleli possono rappresentare oggi poco più di un gioco e magari essere poco confortanti. Ma proviamo: Alitalia ha perso la sua sfida strategica, si è consegnata ad Air France e ha abbandonato i due aeroporti di Milano. Ma Lufthansa non ha atteso un solo trimestre e sta facendo di Malpensa una piattaforma per aggredire l’intero mercato italiano del trasporto aereo, che resta importante. Nel frattempo le linee ferroviarie ad alta velocità stanno ridando competitività tecnico-economica a un trasporto considerato stagionato: naturalmente con massicci investimenti pubblici e – per ora – con la gestione di una delle aziende statali più “old” assieme alle Poste. Mai dire mai. Anche sulla possibile ricostruzione di una “Borsa italiana”.