È la prima volta che un presidente della Popolare di Milano prepara su Youtube l’ennesima battaglia assembleare. Ma non è la prima assoluta di un presidente Bpm che si batte per la riconferma nel luogo istituzionale della democrazia societaria, dopo essere stato sfiduciato dai dipendenti-soci, tradizionali controllori dell’istituto. Già dodici anni fa prima di Roberto Mazzotta ci provò Francesco Cesarini. L’economista della Cattolica era giunto nel ’94 per risollevare un gruppo colpito dalle perdite maturate nell’ultima fase della lunga gestione di Piero Schlesinger. Alcuni episodi divennero oggetto anche di procedimenti giudiziari, mettendo in luce meccanismi direzionali problematici e questi erano in parte ascrivibili all’influenza dominante dei dipendenti-soci e delle loro famiglie (circa 17mila su 110mila partecipanti alla cooperativa) attraverso strutture rigidamente lottizzate dalle rappresentanze sindacali.
Cesarini – che godeva della fiducia della Banca d’Italia fin dai tempi della liquidazione del Banco Ambrosiano – aveva guidato fino ad allora la controllata Banca Agricola Milanese ed era stato indicato alla presidenza dalla Fiba-Cisl della Bpm. Ma le difficoltà del gruppo, il profilo del presidente e l’appoggio tacito di Via Nazionale, furono favorevoli in quel triennio a un tentativo di evoluzione della governance della Popolare: con un management meno legato all’autocontrollo sindacale dei dipendenti e più aperto alla modernità del mercato, essendosi nel frattempo la Bpm quotata in Borsa come le altre grandi Popolari.
Il tentativo andò a vuoto. Dopo crescenti tensioni con il consiglio – nonostante il buon recupero dei conti del gruppo – Cesarini non fu presentato per la riconferma e nel maggio del ’97 corse con una propria lista in assemblea contro quella dei dipendenti-soci: per la statistica ricevette 1.275 voti contro 5.207 dei dipendenti (forti anche di 1.500 deleghe di figli, le uniche consentite all’epoca dagli statuti Bpm). Un’assemblea partecipata da 5mila persone fu comunque un evento societario di primo livello in una finanza italiana nella quale invece – tuttora – colossi come Fiat, Generali, Telecom, UniCredit o Intesa – vedono le proprie convention annuali popolate di poche decine di gestori o anonimi rappresentanti di patti di sindacato.
Dodici anni dopo qualcosa è cambiato, ma in fondo non molto. Nel board della Bpm sono entrati dei consiglieri indipendenti, ma le redini della governance restano saldamente nelle mani dei dipendenti-soci e dei loro sindacati. La Banca d’Italia continua a osservare non di buon occhio la situazione, ma la Popolare di Milano è tutt’altro che una banca in crisi: anche se non è mai riuscita a realizzare un’aggregazione tra pari (ultimo tentativo fallito, quello con la Popolare dell’Emilia Romagna). C’è ancora una volta un presidente di alto profilo – Mazzotta, tra l’altro ex presidente della Cariplo – che alla fine soffre però in modo insostenibile l’impossibilità di manovrare strategicamente (nel suo caso: di stringere un’alleanza internazionale con il grande polo cooperativo francese Credit Mutuel). Attorno l’opinione pubblica – addetti ai lavori e operatori, economisti, giuristi e politici, restano divisi. La Bpm – simbolica dei confronti e degli scontri attorno al grande credito cooperativo – rimane per alcuni la quintessenza di un modello bancario da riformare dalle fondamenta; per altri, invece, un orgoglioso avamposto: la testimonianza – a maggior ragione dopo la “strage delle Lehman Brothers” – di come una “grande banca di territorio” possa mantenere la sua autonoma competitività.
Attorno del resto le esperienze non sono univoche: il Banco Popolare – il più grande istituto italiano della categoria – non fa votare i dipendenti, ha dato invece molto spazio ai fondi comuni nel suo capitale, ha adottato la governance duale per dare più spazio ai manager professionali (e fino a quattro mesi fa c’era come amministratore delegato Fabio Innocenzi, un allievo di Alessandro Profumo). Però questo non ha impedito l’esplodere – nel gruppo – della crisi di Banca Italease e una gestione fortemente orientata all’aumento del valore del titolo in Borsa è sfociata nel crollo al listino. Proprio quando la Banca d’Italia e alcune forze politiche premono ancora per una riforma radicale delle Popolari (almeno di quelle quotate) con l’allentamento dell’ordinamento cooperativo basato sul “voto per testa e non per quota”, il modello continua a mostrare alcuni suoi storici punti di forza. Una banca che ha mantenuto il regime cooperativo (Ubi banca, aggregazione di Popolare di Bergamo, Popolare commercio e industria e Banca Lombarda) non farà ricorso per ora ai Tremonti-bond.
Le prossime due settimane – fino all’assemblea del 25 aprile – saranno utili per la Bpm e per il sistema delle Banche Popolari, se si trasformeranno in un laboratorio non ideologico e non soffocato dalla pura contrapposizione di interessi statici. Mazzotta su Youtube, su questo terreno, appare un’ottima partenza. Il candidato presidente dei dipendenti soci – Massimo Ponzellini – sbaglierebbe se si sottraesse a questo confronto franco e concreto sul “modello Bpm” e sulle strategie del gruppo. E gli stessi dipendenti-soci sbaglierebbero se pretendessero di eleggere nuovamente un presidente-ostaggio all’interno di un fortino perennemente assediato.
Ovviamente, il 25 aprile, l’assemblea resta sovrana: i soci Bpm sono ancora più di 100mila e le regole del gioco (quelle delle cooperative) sono chiare. E se solo i dipendenti restano assidui e organizzati nel partecipare alla vita della loro società secondo gli istituti di legge e di statuto, la banca resta loro. Con buona pace di quelli che – quattro anni fa durante l’Opa di Abn Amro sull’ex Popolare AntonVeneta – proclamavano il primato del mercato solo per partecipare a una delle ultime grandi abbuffate di commissioni, bonus e stock-option. Che nulla aveva a che vedere con il risparmio delle famiglie e con il credito alle imprese.