Ha osservato per primo Massimo Gaggi che il progetto di ristrutturazione di Chrysler (e probabilmente di una parte di Gm e di attività europee di Opel) con la partnership di Fiat prefigura una “nuova Iri”: all’alba del 21esimo secolo e su scala globale. La “new company” attraverso la quale – in estrema sintesi – si tenterà il rilancio delle attività industriali di Detroit, parzialmente liberate dalle attività finanziarie non più sostenibili, avrà tre controllori: l’amministrazione federale Usa (che erogherà nuovi e sostanziosi aiuti di Stato); le organizzazioni sindacali dei lavoratori Chrysler (disposte a convertire in titoli azionari gli accantonamenti in bilancio per spese sanitarie); e il gruppo Fiat. È un modello del tutto nuovo non solo per la più piccola delle storiche case automobilistiche statunitensi, ma per l’intero universo della Corporate America. Qui il controllo e la governance hanno sempre poggiato sul ruolo del mercato (attraverso gli investitori istituzionali, quasi sempre frammentati) e dei manager, veri ed esclusivi “capi” dei grandi gruppi: i quali, tipicamente, stabilivano alleanze avendo sempre un ruolo proattivo. Ora invece la crisi globale porta alla ribalta del capitalismo imprenditoriale statunitense contemporaneamente lo Stato e il sindacato: due soggetti storicamente marginali Oltre Atlantico e più propri della tradizione europea.

L’Iri – grande holding pubblica – è stata la risposta italiana alla depressione degli anni ‘30 del secolo ed è stata poi uno dei grandi motori del boom del dopoguerra: assieme a banche ed autostrade, acciaierie, linee aeree e telefoni, si trovò a gestire anche un produttore d’auto (l’Alfa Romeo). La cogestione tedesca (con la presenza dei sindacati nei consigli di sorveglianza) è stata il brand del cosiddetto “modello renano”: una compatto intreccio di banche, assicurazioni, istituzioni pubbliche federali, industrie che ha modellato la ricostruzione della Germania e la sua riaffermazione come gigante economico mondiale.

L’Italia ha smantellato l’Iri con la grande stagione delle privatizzazioni degli anni ‘90, che però ora è soggetta a una prima revisione storica proprio alla luce della crisi finanziaria: se è vero che l’Alitalia sotto la mano pubblica è alla fine precipitata, la vendita ai privati di utilities come Autostrade o Telecom non è sembrata aggiungere valore né ai singoli gruppi né al sistema paese, risolvendosi abbastanza inequivocabilmente in quella “finanza per la finanza” che alla fine è collassata a livello globale. Dall’altro lato, la crisi delle grandi banche tedesche – e una serie di scandali che hanno toccato realtà come Postbank o Siemens – è stata legata – secondo alcune analisi – più alle tensioni e alle pressioni legate alla tendenziale omologazione al modello di capitalismo anglosassone che al degrado interno del “modello renano”. È stato quando le Landesbanken hanno voluto rincorrere (e in fondo scimmiottare) le investment banks della City o di Wall Street che non hanno retto: ed è stato quando il sindacato ha cessato di esercitare una funzione di vigilanza sulle strategie e sulla corretta amministrazione aziendale (assimilandosi al management ed entrando spesso surrettiziamente nel mondo dei super-bonus).

Ora ci prova l’America, che non è digiuna di esperimenti su questo terreno: dalla Tennesse Valley Authority del New Deal rooseveltiano, fino ai test meno felici di Fannie Mae e Freddie Mac, ormai nel pieno del “casino capitalism” di Wall Street. Ci prova affidandosi a un gruppo italiano, guidato peraltro da uno dei pochi, veri manager globali come l’italo-canadese Sergio Marchionne. La speranza – per una Chrysler che ha sputato per anni le medicine somministrate dalla tedesca Daimler – è che aprire le porte a un medio colosso del Sud Europa non nasconda (o nasconda solo in misura accettabile) – la prospettiva di appoggiarsi a un partner non fortissimo per il periodo del riassetto. Un partner a cui far fare il lavoro più duro, per poi incassarne i benefici (magari compresa la Fiat stessa) a lavoro ultimato. È lo schema, in fondo, sul quale si è mossa la Germania quando ha accettato la fusione tra Hvb e UniCredit, quattro anni fa: il polo bavarese, in seria difficoltà, aveva bisogno di un banchiere qualificato come Alessandro Profumo, ma proveniente da un contesto economico nazionale non dominante su quello tedesco. I risultati finali sono ancora incerti, benché UniCredit Group abbia superato il momento peggiore sulla proprie gambe.